Referendum: quando la politica non decide, tocca agli elettori. Ma sul futuro delle pensioni, silenzio assoluto!

Ancora una volta, la politica si tira indietro e passa la patata bollente agli elettori. L’8 e 9 giugno saremo chiamati a votare su cinque quesiti referendari che toccano temi cruciali per la vita concreta di milioni di persone: lavoro, precarietà, sicurezza e cittadinanza.
Non sono questioni astratte, ma nodi irrisolti che avrebbero meritato una presa di responsabilità da parte del Parlamento. Invece, ancora una volta, la politica preferisce non decidere, e scarica sui cittadini il compito di farlo.
Nel merito, i quesiti sono chiari e tutt’altro che marginali. Si torna a discutere del Jobs Act, dei contratti a termine senza causale, dei limiti ai risarcimenti per i licenziamenti illegittimi, della sicurezza nei subappalti e dell’accesso alla cittadinanza per chi vive da anni nel nostro Paese. Temi scomodi, certo. Ma proprio per questo fondamentali. Temi che parlano di dignità, tutele, riconoscimento.
I promotori – la Cgil e diversi movimenti civici – hanno rimesso in moto uno strumento, quello del referendum abrogativo, che da anni era stato accantonato o svuotato. È una chiamata alla partecipazione che va presa sul serio, anche se non possiamo ignorare il contesto in cui arriva: un’Italia in cui il lavoro è spesso precario, la sicurezza è un miraggio e l’ascensore sociale bloccato. E un’Italia dove il dibattito politico sembra sempre più incapace di andare oltre il giorno per giorno.
Ma mentre ci si chiede di esprimerci su norme complesse – e su questioni che avrebbero richiesto una riforma organica e coraggiosa – c’è un grande assente che pesa come un macigno: le pensioni. Nessuno, in questa tornata, ha pensato di chiedere agli italiani se ritengono giusto andare in pensione oltre i 67 anni. Nessuno ci chiede se accettiamo di ritrovarci, dopo quarant’anni di lavoro, con assegni previdenziali insufficienti perfino a coprire le spese base.
Quel che manca è una domanda che intercetti davvero la preoccupazione più profonda e diffusa tra lavoratori e lavoratrici: dopo una vita a faticare, ci sarà almeno un futuro dignitoso? Evidentemente no, o almeno, non abbastanza da meritare un quesito referendario. Forse troppo esplosivo. Forse troppo scomodo. Forse troppo vero.
Eppure, è anche da questo silenzio che si misura la distanza tra la politica e il Paese reale. Si accendono discussioni su dettagli tecnici, ma si evita il cuore della questione: che modello di società stiamo costruendo? E per chi?
Alla fine, ciò che voteremo potrebbe produrre cambiamenti concreti. Oppure no. Perché se anche il referendum passa, tutto dipende da come (e se) verranno riscritte le leggi. E su questo fronte la storia recente non offre troppe garanzie. Il rischio è sempre lo stesso: illudersi di decidere, per poi scoprire che qualcuno ha già deciso di ignorarci.
Eppure, il referendum resta uno degli ultimi spazi in cui possiamo far sentire la nostra voce. Andare a votare, almeno, significa non rassegnarsi. Ma la partecipazione, da sola, non basta. Serve vigilanza, consapevolezza, mobilitazione. Perché altrimenti – dopo il voto – tutto rischia di tornare al punto di partenza. O peggio, di essere dimenticato.
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