L’ostilità della sinistra per il sionismo

Al di là del conflitto attuale, esiste un problema di astio antiebraico da una ventina di secoli almeno.
Sono stati fatti molti studi sull’antigiudaismo cristiano, di marca religiosa, e sull’antisemitismo illuminista di stampo laico. E sono noti i collegamenti fra i due modi di essere antiebraici con il secondo che si innesta sul primo annullandone semplicemente, ma aggravandole, le tematiche religiose. Se infatti, prima, si poteva con la conversione "smettere di essere ebrei", con il razzismo biologico questo non è più stato possibile.
Con la nascita di Israele se ne è aggiunto un altro tipo.
Chiariamo subito che qui non si intende né giustificare né tantomeno assolvere le politiche dei governi israeliani dalle loro tante responsabilità, colpe o veri e propri crimini. Personalmente trovo che l’unica soluzione possibile al conflitto ormai secolare tra ebrei e arabi di quel territorio sia la separazione. Cioè l’esistenza di due stati separati da un confine condiviso e auspicabilmente insuperabile. Con la speranza che fra venti, cento o mille anni quei due popoli comincino a pensare che è assurdo continuare a spararsi e comincino a convivere (i segni ci sono già ora anche ben pochi ne parlano perché fa più figo schierarsi con le bandierine), collaborare e perfino amarsi.
Ma una riflessione sul motivo per cui l’odio antiebraico trova sempre nuove forme per riemergere va fatta.
Israele non è nata in modo “strano”. È nata dalle ceneri dell’Impero Ottomano esattamente come tutti gli Stati arabi della regione. Stati arabi che al loro interno avevano minoranze non arabe e/o non musulmane. Quindi cristiane di varie confessioni, curde, armene, druse, ebraiche, circasse e altre ancora. Spesso discriminate se non perseguitate. Israele è nato nello stesso modo: la minoranza ebraica residente su quel territorio (chi da millenni, chi da secoli, chi da decenni, chi da anni e anche chi da giorni) ha preteso una sua sovranità nazionale su parte del territorio (ormai privo di sovranità) esattamente come hanno fatto i curdi altrove. Ma la maggioranza araba, come ha fatto con i curdi, ha sostenuto di avere diritti esclusivi di sovranità sulla totalità di quel territorio ex-ottomano. Qui è iniziato il conflitto. A differenza dei curdi i nazionalisti ebrei hanno combattuto e non sono stati sconfitti invece di soccombere. Questa è la loro colpa.
E da qui un astio che un po’ troppo spesso va oltre il comprensibile sdegno per gli indiscutibili crimini dell’occupazione contemporanea. Non c’è discussione che non arrivi, prima o poi, a criticare l’esistenza stessa dello stato ebraico fin dal 1948. Cioè a mettere in discussione il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico. Riassunto ed esplicitato nello slogan “from the river to the sea Palestine will be free” che riassume e traduce in cantilena il programma politico di Hamas e delle altre formazioni islamiste: l'eliminazione dell'esistenza stessa di Israele. Nel momento stesso in cui, in virtù delle sacrosante tematiche anticolonialiste, si accetta e auspica il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo, lo si nega al popolo ebraico.
Ma riconoscere a chiunque un diritto che si nega solo agli ebrei (l’autodeterminazione, appunto) è definibile come discriminazione su base etnica. Cioè razzismo. Che nello specifico si chiama antisemitismo. È qui che antisionismo e antisemitismo si identificano.
Torniamo quindi al punto: quale potrebbe essere il comune denominatore delle varie forme di antiebraismo che si sono attivate nel corso dei millenni? Antigiudaismo, antisemitismo e antisionismo rispondono al medesimo nucleo di ostilità che poi si adatta, via via, alle tematiche più adeguate ai tempi: il deicidio, l’impurità di sangue, l’inaffidabilità nazionale della minoranza ebraica negli stati nazionali, il colonialismo oppressivo. Tematica quest'ultima, in cui confluiscono elementi comprensibili (Deir Yassin fu indiscutibilmente un crimine) insieme a strane "dimenticanze" (anche Hebron fu un crimine, vent'anni prima di Deir Yassin, ai danni della comunità ebraica, ma non ne parla mai nessuno).
Questo “nucleo di ostilità” va individuato. E una accusa ricorrente ci può essere utile per individuarlo: l’insopportabilità del concetto di “elezione” che l’ebraismo si porta dietro dai tempi biblici. Si dice che gli ebrei, definendosi "eletti" si sentano superiori agli altri popoli. E questa presunta superiorità si risponde con un rifiuto variamente articolato, fino alle ingiurie e oltre.
Sappiamo che “popolo eletto” è un termine che traduce nelle lingue neolatine il latino “electus” che (Dizionario Latino online) significa “scelto, eletto, eccellente, superiore” a sua volta traduzione dell’originale ebraico “hāʿām hanīvḥar”. In inglese, pur esistendo il termine “elected” per indicare ad esempio l’elezione di un Presidente, nel caso del popolo ebraico si usa infatti il termine “chosen”, scelto: “chosen people”, il popolo scelto. In altre parole la traduzione potrebbe essere anche solo “scelto” che non contiene alcun concetto di superiorità. Si può essere scelti, infatti, anche per i lavori più umili. È in questa ottica di servizio che il termine viene concepito nella tradizione ebraica.
Gli ebrei erano il popolo "scelto" dal Dio dell’ebraismo, il loro dio. Vale a dire che il Dio dell’ebraismo era stato scelto dal popolo ebraico. Non è una cosa strana o un'originalità bizzarra degli antichi israeliti. Era così che usava a quei tempi: ogni popolo aveva il suo dio o i suoi dèi come oggi ogni popolo ha la sua bandiera e i suoi simboli.
La definizione rimanda a un concetto tipico dell’antichità: il tribalismo religioso. Che precede di millenni il concetto universalistico, base del cristianesimo paolino e, poi, dell’Islam. In questo contrasto concettuale tra particolarismo ebraico, fondato su una religione tribale in origine e che ha conservato ampi tratti di quella sua origine tribale, e universalismo cristiano e islamico, entra in ballo l’insopportabilità degli ebrei come popolo “a parte”, a sé stante.
E qui si gioca tanta parte dell’attuale contrapposizione della sinistra internazionale contro il sionismo e Israele, in cui confluiscono legittime critiche alle politiche dei governi israeliani, condivisibile sdegno per i soprusi, in particolare dai coloni della West bank contro la popolazione palestinese, l’orrore per i crimini di guerra, ma anche, indiscutibilmente, il già citato diniego al diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico che si esprime nella negazione del diritto di Israele a esistere come “Jewish state”, per riprendere la terminologia della risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’ONU che proponeva la partizione del territorio in due stati confinanti.
A differenza delle destre moderne, ampiamente individualistiche e quindi più disposte concettualmente ad accettare un “particolarismo” (fino a inventarsi la barzelletta di un sedicente "popolo padano") la sinistra si fonda, così come il cristianesimo, sul concetto di uguaglianza fra gli esseri umani.
Nel diffuso fraintendimento di questo concetto – uguaglianza nei diritti non significa affatto identificazione di tutti con tutti – si nasconde il virus che cerchiamo. L’insopportabilità della sinistra per Israele, per il sionismo si lega all’insopportabilità della sinistra per l’ebraismo, più precisamente per il particolarismo ebraico.
Inutile (forse) ricordare che anche l’antisemitismo moderno nasce negli ambiti della sinistra francese che aveva fatto proprio il concetto rivoluzionario di égalité. Ogni particolarismo identitario divenne un nemico dell’uguaglianza rivoluzionaria e come tale condannato.
Il concetto, sviluppato dallo storico Georges Bensoussan, è chiarissimo: «La Rivoluzione aveva reso l’ebreo francese un cittadino come gli altri, che poteva conservare la propria diversità nell’ambito della sfera privata. Questa emancipazione fu però molto presto minata da una contraddizione abbastanza complessa insita nel concetto stesso di democrazia (da cui però è inseparabile), dato che l’uguaglianza democratica ritiene ogni diversità come una disuguaglianza e qualsiasi disuguaglianza come un’ingiustizia» ne consegue che «percepita sempre di più come una differenza ingiustificata, l’alterità ebraica, per tenue che essa sia, riesce a simboleggiare delle differenze sociali ritenute insopportabili».
Da qui l’idea che l’alterità ebraica minacci l’uguaglianza democratica tanto quanto, prima, minacciava l’uguaglianza predicata da cristianesimo e Islam.
E se fino alla prima metà degli anni Quaranta «l’antisemitismo moderno esprime[va] quanta paura incuta l’ebreo al proprio carnefice, il quale si percepisce come vittima» fino a «immaginare un massacro preventivo e purificatore», oggi, dalla seconda metà degli anni Quaranta, si può sostenere che il sionismo rappresenti per gli egualitaristi il peggio dell'individualismo, del particolarismo, fino a “simboleggiare delle differenze nazionali ritenute insopportabili”.
Senza assolvere Israele e soprattutto il suo attuale governo dalle proprie responsabilità, questo spiega, prima ancora delle categorie politico-economiche, l'ostilità della sinistra per il sionismo.
E questo, sia chiaro, è un problema che va ben oltre l'attualità.
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