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Israele, Gaza e il dopoguerra prossimo venturo

A giudicare dall’articolo di Benny Morris, il veterano dei “nuovi storici” israeliani, pubblicato su Haaretz, si direbbe che la situazione mediorientale stia entrando nella fase del dopoguerra.

Non tanto perché la tregua doppia – con gli Hezbollah del Libano e gli islamisti di Gaza – sembra reggere a sufficienza, quanto perché sono iniziate le riflessioni sul prossimo futuro.

Tiriamo qualche somma.

La regione non è più quella di prima: l’Iran si è ritirato dentro i suoi confini, non può più contare sull’appoggio, né tattico né strategico, da parte del regime di Assad in Siria; gli Hezbollah libanesi sono isolati e hanno dovuto incassare colpi molto severi da Israele, hanno dovuto cedere alla pressione ritirandosi a nord oltre il fiume Litani e, internamente, hanno dovuto accettare un presidente sostenuto da Usa e Arabia Saudita.

Senza supporto dal cosiddetto “asse della resistenza” anche Hamas si trova isolata e probabilmente (se i numeri forniti dalle IDF sono attendibili) più che dimezzata nelle forze combattenti. Resta un pericolo, ma è evidente che senza il quadro regionale che la sosteneva annaspa in una situazione destinata a diventare sempre più asfittica anche se l’esercito israeliano dovesse iniziare a ritirarsi sul serio. E i manovratori dei tanti soldi che serviranno dall'imponente ricostruzione della Striscia, cercheranno di estrometterla dalla loro gestione sottraendole una formidabile arma di pressione sociale ed economica (e quindi politica) sulla popolazione.

Il quadro palestinese è al momento talmente caotico che rende impossibile fare ipotesi credibili sulle possibili linee tendenziali interne: l’ANP ha dato segno di vigoria anti-Hamas in Cisgiordania per accreditarsi come destinatario affidabile del governo di Gaza dopo la fine del conflitto, ma la forza residua degli islamisti può ancora tenergli testa. E la popolazione, se mai dovesse tornare alle urne, ha dato anche recentemente segno di essere più favorevole agli estremisti che al compromesso Abu Mazen.

Per quanto riguarda Israele, l’articolo di Benny Morris (ecco che ci arriviamo) chiarisce bene due punti: da storico ci tiene a precisare fin da subito che «Israele non sta commettendo un genocidio a Gaza» aggiungendo che, a suo parere, «il procuratore dell'Aja e tutti gli eruditi professori, da Omer Bartov in giù, che parlano di genocidio, sbagliano. Il governo non ha una politica di genocidio, non c'è alcuna decisione da parte dei leader israeliani di commettere genocidio, non c'è alcuna intenzione deliberata di annientare i palestinesi e non ci sono ordini provenienti dal governo all'esercito, o dai capi dell'esercito ai ranghi operativi di assassinare "i palestinesi". Molti di loro sono stati uccisi, ma questa non è una politica [di sterminio programmato]».

Qualsiasi cosa ne dicano i polemisti nostrani è il parere di un esperto di prima grandezza che, prima di tutto, sgombra il campo dagli equivoci: prima va detto che non è in atto un genocidio, poi però va aggiunto che ci sono ormai le condizioni psicologiche perché questo possa avvenire.

Chiarisce infatti che l’ignobile massacro a freddo del 7 ottobre «è stato l'evento di punta che ha preparato i cuori e le menti degli ebrei al genocidio...»

Con quel massacro – come già avvenne in qualche misura con il massacro di inermi civili ebrei a Hebron nel 1929 – le menti israeliane si sono irrigidite nel “o noi o loro”, le posizioni politiche radicalizzate, i cuori induriti e oggi, dice Morris, quei cuori sono preparati a compiere un genocidio in cui volutamente non si distingue più tra civili e combattenti.

Per poi affermare: «...e il genocidio apparentemente arriverà a un certo punto». Esso sarà messo in atto quando gli arabi, proprio come il 7 ottobre o il 24 agosto 1929, forniranno la scusa e la scintilla. Quegli arabi su cui «si può contare» per il casus belli prossimo venturo.

In conclusione avverte che «se la questione palestinese (...) non verrà risolta e non verrà attuata la soluzione dei due Stati, l'unica possibile (anche se in questo momento sembra del tutto inimmaginabile), prima o poi arriverà il genocidio e, naturalmente, la parte più forte sarà quella che lo perpetrerà».

Le condizioni ci sono dunque, per un drammatico sbocco genocidario (ripetiamo: inesistente a oggi), ma ci sono anche le condizioni per una soluzione non così drammatica: Hamas è indebolita, il quadro regionale è cambiato, l’influenza iraniana respinta, la nuova presidenza americana vuole chiudere la questione coinvolgendo i sauditi che, a loro volta, vogliono una soluzione definitiva alla questione palestinese. Tutto questo va tenuto presente.

Mai come in questo momento la situazione, pur nel disastro catastrofico della guerra e della crudele conta dei morti, permette di immaginare una soluzione a "due Stati".

Ma ci vogliono i politici giusti per farlo: in Israele politici pragmatici capaci di togliere il potere di interdizione a messianici, nazionalisti religiosi e coloni oltranzisti, evitando al contempo di precipitare il paese in uno scontro civile destabilizzante. Ma capaci anche di concedere ai palestinesi una qualche forma di “onore delle armi” anziché una umiliazione senza fine (né utilità) e, nello stesso tempo, di salvare i tratti originari della democrazia israeliana evitando il paventato "suicidio morale di Israele".

In Palestina sono indispensabili personalità meno compromesse con le tendenze intransigenti, indisponibili a qualsiasi compromesso e terroristiche sponsorizzate negli ultimi quarant'anni dal khomeinismo e incomprensibilmente considerate dalle sinistre mondiali forze della "resistenza" (senza le quali probabilmente una soluzione a due stati sarebbe invece arrivata da decenni). Personalità più adatte quindi a spuntare la soluzione meno penalizzante per il loro stato e nello stesso tempo capaci di contrastare le animosità revansciste di chi vorrebbe continuare su una strada che porta unicamente al martirio di un intero popolo e forse alla sua catastrofe finale.

Questa è l'unica via d'uscita dal conflitto: l'estromissione speculare degli estremisti religiosi.

O le due comunità riusciranno a partorire profili politici in grado di incamminarsi sulla strada indicata dallo storico israeliano o il futuro sarà il genocidio da lui paventato. Con una successiva, potenzialmente devastante per la stessa Israele, reazione senza limiti da parte dell'intero mondo islamico e lo sdegno condivisibile di tutto il mondo.

P.S. Netanyahu è a Washington all'incontro con Trump. Il proseguimento della fase di tregua si deciderà nei prossimi giorni.

Foto: Felton Davis/Flickr

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