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Nuovo Senato, chi ha detto che rinforzerà la maggioranza della Camera?

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare, Se mancava una ragione di natura politica e non tecnico-giuridica per avere moltissime remore a condividere la riforma del Senato proposta con la legge costituzionale Boschi, è stato Eugenio Scalfari a fornirla su un piatto d’argento ai fautori del “No”, nella puntata di Ottomezzo del 3 novembre scorso.

 Il fondatore de La Repubblica, in sintesi, ha affermato che la riforma costituzionale del Senato va bene in quanto consente al partito di maggioranza, attualmente il Pd (che dispone però di una maggioranza relativa al Senato) di disporre, in futuro, anche di un’ampia maggioranza al Senato, visto che controlla la gran parte delle regioni. Un’argomentazione apparentemente riferita alle esigenze di “governabilità” e “stabilità”, ma che rivela, invece, moltissimi difetti e pericoli proprio di stabilità.

La circostanza, infatti, che una maggioranza formatasi in campo nazionale possa anche disporre contestualmente della maggioranza nella gran parte delle regioni è solo frutto di casualità. Potrebbe perfettamente accadere che presso le regioni si formino maggioranze di governo di orientamento politico prevalentemente avverso alla maggioranza del Parlamento che sostiene di volta in volta l’esecutivo. In effetti, questa eventualità si è determinata più volte nel corso della complicatissima alternanza tra centro-destra e centro-sinistra, prima delle larghe intese che si prolungano dal Governo Monti ad oggi.

La riforma della Costituzione, quindi, non garantisce affatto identità di linea politica tra Camera e Senato. Non solo. Tale assenza di garanzia non deriva esclusivamente dalla “fotografia” di una diversità di composizione politica “ad una certa data”, ma potrà anche essere conseguenza di un “flusso” imprevedibile. Non si deve trascurare la previsione della riforma, secondo la quale “La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma”. Pertanto, la composizione del Senato può modificarsi in maniera anche molto pronunciata nel corso di ciascuna legislatura e modificare in modo inaspettato, progressivo o anche immediato, gli equilibri politici.

Il che non costituirebbe un grave problema, se davvero il Senato si interessasse esclusivamente delle materie di interesse delle regione e degli enti locali. Invece, caro Titolare, come visto in precedenti contributi (da Ella colpevolmente ospitati tra questi pixel), il Senato interviene obbligatoriamente su una quantità sterminata di procedimenti legislativi e facoltativamente su tutto il resto. Dunque, la costituzione anche per moto carsico di un Senato di orientamento politico avverso a quello della Camera può comportare certamente il rischio di uno stallo e di un boicottaggio tra le due camere, tale da rendere ben più complicato e conflittuale di oggi qualsiasi iter legislativo.

Non si trascuri, poi, la circostanza che non appare corretto elevare un consenso politico che si forma a livello territoriale alla stessa stregua del consenso del corpo elettorale della Nazione intera. L’articolo 1 della Costituzione stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, come elemento costitutivo necessario della Repubblica e della Nazione. Organi costituzionali, come resterà il Senato, competenti a legiferare in rappresentanza della Repubblica, allora, non possono essere costituiti come somma di differenti corpi elettorali di carattere regionale e comunale, che esprimo il loro consenso a proposte politiche in base a logiche ed esigenze appunto regionali e locali, potenzialmente molto diverse da quelle alla base, invece, dell’adesione alle politiche di interesse complessivo della Nazione.

Una sommatoria, dunque, disorganizzata, magmatica e complessa di localismi potrebbe condizionare non poco l’interesse complessivo unitario della Nazione, finendo per confliggere con la volontà del popolo espressa alla Camera, se al Senato le espressioni di localismi finissero per esprimere maggioranze non in linea con quella di Montecitorio.

Foto: Palazzo Chigi/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Accademico dei Pugni (---.---.---.180) 5 novembre 2016 15:58
    Accademico dei Pugni

    In questo articolo si "dimentica" un "piccolo" particolare: con la riforma costituzionale e il superamento del bicameralismo paritario sarà soltanto la Camera dei deputati a votare la fiducia o la sfiducia al Governo. 

    Scrive l’autore: 
    il "Senato interviene obbligatoriamente su una quantità sterminata di procedimenti legislativi e facoltativamente su tutto il resto. Dunque, la costituzione anche per moto carsico di un Senato di orientamento politico avverso a quello della Camera può comportare certamente il rischio di uno stallo e di un boicottaggio tra le due camere, tale da rendere ben più complicato e conflittuale di oggi qualsiasi iter legislativo".

    In realtà, se guardiamo alle leggi approvate dal Parlamento negli ultimi tre anni, se fosse già entrata in vigore la riforma costituzionale le leggi a competenza legislativa bicamerale paritaria sarebbero state soltanto il 3% delle leggi approvate. Allora perché ai 14 tipi di leggi bicamerali - dalla riforma costituzionale ben determinati, ad esempio le leggi costituzionali e di revisione costituzionale - corrisponde un numero di leggi molto limitato? Perché si tratta in realtà di interventi cui si pone mano molto di rado (ad esempio, non si cambia ogni anno la Costituzione). Ciò significa che le leggi a prevalenza finale della Camera dei deputati saranno nettamente di numero maggiore. Con la riforma costituzionale i tempi per approvare la maggior parte delle leggi saranno dunque più brevi e si metterà finalmente un limite all’abuso dei decreti-leggi. 

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