Trump fa grande l’agroalimentare brasiliano
Nella guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, il Brasile emerge come grande vincitore nell'agroalimentare. I farmer americani, molti dei quali elettori trumpiani, faticano ancora a unire i puntini e prendere il forcone.
La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, che nei giorni scorsi aveva assunto la parvenza di un embargo reciproco, prima che Trump sbracasse su smartphone, computer, router e assimilati mostrando al mondo che la sua Art of the Deal è sempre più vicina a un Fart of the Deal, sta producendo grandi vincitori e altrettanto rovinosi sconfitti: i coltivatori dell’America latina, soprattutto brasiliani, e quelli statunitensi, che tra l’altro si preparano (forse) a prendersi in testa anche le tariffe sui mercantili cinesi, che colpiranno come un cataclisma i produttori di materie prime agricole e di alimentari, date le generalmente basse marginalità di queste esportazioni.
Trionfo brasiliano
Il Brasile, come ricorda il Financial Times, è stato il grande vincitore della guerra dei dazi del primo mandato di Trump, e oggi si appresta ad aumentare il proprio primato di fornitore di derrate agroalimentari alla Cina, dalla soia alla carne bovina. Di quest’ultima, le esportazioni brasiliane in Cina sono aumentate di un terzo nel primo trimestre del 2025 rispetto a un anno prima, mentre le importazioni cinesi di pollame brasiliano sono cresciute a marzo del 19 per cento su base annua, secondo associazioni commerciali locali.
Nel frattempo, la domanda estera ha portato a scambiare sui mercati globali la soia brasiliana a premio di 1,15 dollari per bushel rispetto ai loro omologhi statunitensi, mentre solo a gennaio quotava a sconto di 25 centesimi. La domanda cinese di cereali statunitensi sta svanendo: a gennaio siamo a meno 54 per cento annuo. La Cina di solito acquista il 90 per cento delle esportazioni americane di sorgo e circa la metà di quelle di soia.
Come riporta il FT, il presidente della American Soybean Association, che si è dichiarato tre volte elettore di Trump e che evidentemente non ha ancora collegato i puntini, a conferma dei miei sospetti sugli elettori trumpiani, in una lettera aperta ha implorato il presidente di negoziare con la Cina segnalando che, dopo la prima guerra commerciale con Pechino, gli agricoltori statunitensi hanno accusato una perdita di un decimo della quota di mercato cinese, mai recuperata.
Barriere non tariffarie cinesi
C’è da dire che la Cina opera con le famose barriere non tariffarie, tecnica in cui è indiscutibilmente maestra da quando è stata ammessa nella WTO, un quarto di secolo addietro. Di solito invoca contaminazioni alle derrate agricole o presenza di sostanze proibite nella carne per bloccare le importazioni quando la tensione sale. Anche a questo giro, il copione è stato rispettato. Il mese scorso, Pechino infatti non ha rinnovato a centinaia di impianti americani di lavorazione della carne le autorizzazioni a esportare in Cina. Molti molitori cinesi hanno poi bloccato le importazioni di cereali statunitensi perché i dazi hanno azzerato i loro margini.
La Cina si volge quindi verso Europa e soprattutto Brasile per le importazioni agricole. Con un effetto collaterale non da poco: questa maggiore apertura settoriale viene scambiata col via libera a prodotti finiti e intermedi cinesi, come auto e acciaio, col risultato di squilibrare pesantemente le bilance commerciali, dato l’evidente dislivello di valore aggiunto, ma anche di uccidere interi settori industriali dei paesi di destinazione dell’export cinese.
Il settore delle esportazioni agroalimentari brasiliane dovrebbe in effetti definirsi felicemente trumpiano, viste le grandi opportunità fornite dal presidente statunitense già durante il suo primo mandato. Durante il quale, ad esempio, i fagioli di soia brasiliani sono stati scambiati a premio di circa il 20 per cento rispetto a quelli statunitensi, contribuendo a convogliare investimenti nel settore agricolo del paese. Quegli investimenti hanno eroso il vantaggio competitivo degli Stati Uniti, che si basava su una forte infrastruttura e affidabilità. La quota degli Stati Uniti nelle importazioni alimentari della Cina è crollata dal 20,7 per cento nel 2016 al 13,5 per cento nel 2023, mentre quella del Brasile nello stesso periodo è cresciuta dal 17,2 al 25,2.
Capitali per le infrastrutture brasiliane
Le infrastrutture logistiche del Brasile non sono tuttavia ancora sviluppate quanto quelle statunitensi, con colli di bottiglia nei porti che spesso ritardano le esportazioni. Ma la guerra commerciale in corso potrebbe portare robusti investimenti nel paese sudamericano, magari anche da parte della stessa Cina. Gli europei, in attesa della ratifica del trattato di libero scambio col Mercosur, potrebbero anche essere costretti a passare a una fornitura di proteine per mangimi per animali dal Brasile anziché dagli Stati Uniti, secondo la Federazione Europea dei Produttori di Mangimi (FEFAC).
Con l’Ue pronta a imporre dazi compensativi del 25 per cento su soia, carne bovina e pollame statunitensi tra aprile e dicembre, cresce il timore che il Brasile non riesca a soddisfare la domanda. L’Europa sta finendo in competizione con la Cina per gli stessi prodotti. Il che vuol dire prezzi più alti per i mangimi, che generano inflazione alimentare.
Ma non è detto che questi scenari ad alta criticità si realizzeranno effettivamente. Trump ribadisce che ha un ottimo rapporto con Xi Jinping e che attende la sua telefonata, magari per poter poi vantarsi di aver ricevuto il bacio più ambito sul deretano. Nell’attesa, Trump ha già sbracato sugli smartphone per evitare che Apple letteralmente crepasse, e questo è solo l’inizio. Quanto ai farmer statunitensi, molti dei quali come detto sono suoi fedeli elettori, attendono robusti sussidi, ben superiori a quelli del primo mandato, per resistere all’età dell’oro che rischia di ucciderli. Il momento della resipiscenza e dei forconi pare ancora lontano. Ma anche in queste dinamiche, non attendetevi movimenti lineari.
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