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Cassazione: “Nessun patto tra Forza Italia e la mafia”. Perché Dell’Utri è stato assolto

La Cassazione ha riviato a un nuovo appello il processo Dell'Utri per le accuse fino al 1992. Ma ha confermato l'assoluzione per le imputazioni sulla stagione politica, su cui ora c'è una verità giudiziaria definitiva: non c'è mai stato nessun patto criminale tra Marcello Dell'Utri e Cosa nostra. Ecco perché.

Qualcuno l’ha chiamata «la sentenza dei sofismi». Quel che si è capito dalle cronache giudiziarie sulle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sul processo Dell’Utri depositate due giorni fa è che per la Cassazione il concorso esterno in associazione mafiosa esiste (e non è un reato «a cui non crede nessuno» come ha detto il pg Iacoviello in udienza) e che Dell’Utri si è adoperato per anni in favore di Cosa nostra in qualità di tramite milanese con il Berlusconi imprenditore.

La Corte, però, non ha ritenuto provati a sufficienza i rapporti di Dell’Utri a beneficio della criminalità organizzata siciliana negli anni tra il 1978 e il 1982, il periodo in cui Dell’Utri lascio Berlusconi per mettersi in affari con Filippo Alberto Rapisarda, un imprenditore con soci mafiosi. Per questo, per la «manifesta illogicità e incompletezza rilevante» di quella parte delle motivazioni della sentenza di condanna, la Cassazione ha rinviato il processo a una nuova sezione della Corte di Appello di Palermo che «dovrà nuovamente esaminare e motivare, con percorso argomentativo diverso da quello contenuto nella parte di motivazione censurata» se Marcello Dell’Utri ha commesso il reato di concorso esterno in associazione mafiosa «anche nel periodo di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Finivest».

L’aspetto più trascurato della sentenza, però, è che la Cassazione ha confermato l’assoluzione in Appello di Dell’Utri per le imputazioni successive al 1992, nel periodo in cui secondo l’accusa Dell’Utri sarebbe stato l’uomo chiave di un patto politico tra Forza Italia e Cosa nostra. La Corte d’Appello aveva riformato la sentenza del Tribunale di Palermo che condannava Dell’Utri per tutte le accuse e lo aveva assolto per le quelle sulla «stagione politica». Contro quest’assoluzione aveva opposto ricorso il pg che ha sostenuto l’accusa in appello, Antonino Gatto. Ricorso che il 9 marzo scorso la Cassazione aveva giudicato inammissibile, rinviando il processo a un nuovo appello per la sola parte di condanna, rendendo l’assoluzione definitiva.

La decisione della Corte su questo capitolo delle accuse contro Dell’Utri è senz’altro la parte più importante della sentenza per due motivi. Primo, la gravità politica dell’imputazione: essersi speso per gli interessi di Cosa nostra anche nel mondo politico-istituzionale, oltre che in quello imprenditoriale, stipulando un accordo criminale tra l’associazione mafiosa e il neonato partito politico di Berlusconi. Poi perché è l’unico capitolo del processo di cui, arrivati a questo punto, si possiede una verità giudiziaria definitiva: non c’è mai stato nessun patto criminale tra Forza Italia e Cosa nostra.


Il problema, secondo la Corte di Cassazione, sarebbe tutto nei motivi di ricorso avanzati dal procuratore Gatto. Tra i rimproveri più frequenti che i giudici muovono a Gatto c’è quello di avere chiesto alla Cassazione di giudicare questioni di merito quando invece contro una sentenza di appello si può ricorrere solo per «vizio di manifesta illogicità della motivazione o di incompletezza della stessa, alla luce di prove decisive: i soli vizi per i quali è consentito sollecitare il controllo di legalità della Cassazione». Per esempio sui presunti incontri con Vittorio Mangano nel 1994 in cui, secondo il pentito Salvatore Cucuzza, Dell’Utri si sarebbe impegnato con il boss per proporre riforme del 41 bis e del reato di associazione mafiosa favorevoli a Cosa nostra.

Nelle agende sequestrate a Dell’Utri si trovano annotati diversi appuntamenti con Mangano. Secondo gli avvocati si tratterebbe di un omonimo, tale Roberto Mangano, ma almeno in uno è specificato bene il nome: Vittorio. Secondo la Corte di Appello che ha assolto Dell’Utri per le imputazioni sulla politica, però, il fatto che questi appuntamenti siano segnati sulle agende del senatore non prova che siano davvero avvenuti. Gatto, nel suo ricorso, contesta questa valutazione, che per i giudici della Corte Suprema, però, non è «manifestamente illogica». L’obiezione mossa da Gatto, secondo cui le annotazioni sulle agende bastano a ritenere provati gli incontri, è solo «un’opzione interpretativa alternativa», «una ipotesi che avrebbe potuto lasciare il passo – e lo ha fatto – ad altre legittime ipotesi di segno contrario: una doglianza, in altri termini, che non può trovare ingresso nella sede del controllo di legittimità». Tradotto: spettava alla Corte d’Appello stabilire se quelle annotazioni sulle agende di Dell’Utri bastassero per ritenere provati quegli incontri oppure no; ha ritenuto di no e alla Cassazione non compete giudicare questa valutazione fatta in appello sulla sufficienza delle prove.

Così la Corte ha continuato a rigettare, uno dopo l’altro, i motivi di ricorso del pg di Appello – ritenuti quasi tutti una «richiesta di un’alternativa di costruzione dei risultati di prova e non dell’argomentazione di un’illogicità insanabile» – contro passaggi della sentenza giudicati dalla Cassazione, per quanto discutibili, comunque basati su «un ragionamento plausibile rispondente ai criteri della logica e della razionalità».


Non solo. Il pg Gatto ha anche «affidato una parte consistente delle sue critiche al pedissequo richiamo della requisitoria scritta presentata alla Corte di Appello». Altro errore per i giudici cassazionisti, secondo cui «è inammissibile il ricorso fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito». Il procuratore, insomma, non avrebbe dovuto proporre alla Cassazione le stesse considerazioni di merito che aveva già esposto durante il processo a Palermo.

È il caso dell’ottavo motivo di ricorso del pg, quello sulla credibilità del pentito Gaspare Spatuzza, che aveva raccontato ai giudici di un incontro con i boss Graviano durante il quale i due fratelli mafiosi gli avrebbero riferito di avere il «paese nelle mani» grazie a Berlusconi e Dell’Utri. I giudici di appello non lo hanno giudicato attendibile anche perché le sue accuse su quell’incontro furono tardive rispetto alla sua collaborazione con la giustizia. Secondo Gatto, invece, avrebbero dovuto credergli: la spiegazione di quel ritardo rispetto alle altre dichiarazioni l’aveva spiegata il pentito stesso, riconoscendo che nel 2008, dopo essersi ritrovato d’un tratto capo del Governo l’uomo che avrebbe dovuto accusare, non aveva più avuto il coraggio di farlo. E poi «Spatuzza aveva intrapreso un percorso collaborativo fondato su ragioni anche religiose, autoaccusandosi un delitto gravissimo come quello di Via D’Amelio». Considerazioni simili, però, a quelle che Gatto aveva già proposto nella sua requisitoria, quindi inammissibili, anche per via «dell’impossibilità» per i giudici della Cassazione «di cogliere esattamente le ragioni della manifesta illogicità» della sentenza impugnata.

Tra le decisioni che il pg Gatto contesta alla Corte di Appello, c’è anche quella di non avere ammesso al processo la testimonianza di Massimo Ciancimino a proposito di alcune lettere destinate a Berlusconi che a suo dire avrebbe ricevuto dal padre e indirizzato a Dell’Utri. Per Gatto i documenti e la testimonianza di Ciancimino avrebbero potuto essere prove decisive. Un’obiezione che la Cassazione ritiene «manifestamente infondata».

Quanto al patto politico tra Dell’Utri e Cosa nostra, secondo la Cassazione non sarebbe provato perché «l’appoggio elettorale da parte di alcuni esponenti di cosa nostra non si sarebbe tradotto in un comprovato comportamento capace di determinare (…) un concreto effettivo rafforzamento del sodalizio mafioso». I giudici citano la sentenza Mannino «secondo cui l’efficienza causale dell’impegno e della promessa di aiuto politico sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa [di cosa nostra] deve essere dimostrata».

Non è sufficiente, quindi, che la mafia abbia votato e fatto votare Dell’Utri e Forza Italia affinché il senatore possa essere ritenuto colpevole di concorso esterno, perché poi Dell’Utri, nella sua attività politica, non ha favorito Cosa nostra. Non basta nemmeno che Dell’Utri abbia accettato il sostegno elettorale della mafia in cambio di promesse politiche che poi non ha mantenuto perché «la prova regina di un simile effetto deriva generalmente proprio dalla dimostrazione tangibile concreta dei risultati dell’impegno dell’uomo politico in favore del sodalizio che gli ha assicurato l’appoggio elettorale». Assolto perché ciarlatano. Così è deciso. Per sempre.


LEGGI: Tutti i contatti di Dell'Utri con le mafie dopo il 1992

LA SENTENZA DI APPELLO: “Dell'Utri mediatore tra Berlusconi e Cosa nostra”


 

Commenti all'articolo

  • Di Sandro kensan (---.---.---.142) 28 aprile 2012 13:07
    Sandro kensan

    A me pare che la giustizia sia, come sempre, bifronte. Trovo che in altri casi basti molto poco per condannare e in altri casi basti molto poco per assolvere, dipende tutto dal "peso" del personaggio.

    Mi sa che siamo ancora all’applicazione della legge per i nemici e all’interpretazione della legge per gli amici.

  • Di (---.---.---.94) 30 aprile 2012 11:42

    la mafia è diventata da 150 anni strumento della politica. Erano delinquenti e sono stati fatti diventare un potere dello stato. I nomi ci sono...questo popolo sa...quindi è colluso con la mafia perchè si rivotano, sianop essi a dx che a sx. Un modo c’è...almeno per i voti liberi è quello di punire nelle urne...PDL e PD non possono fare le verginelle, sanno ed anche più di quello che c’è da sapere. Una democrazia che non usa la punizione del seggio, non è democrazia. A casa, possibilmente a lavorare se ne trova uno di lavoro, niente più pensioni, niente vitalizi, spogliazione di beni acquisiti indebitamente. Il lavoro Vi nobiliterà.

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