• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > Quel mazzolin di rose e viole. La (voluta) mancanza di realismo nella (...)

Quel mazzolin di rose e viole. La (voluta) mancanza di realismo nella poesia leopardiana

Anche se molti componimenti leopardiani (tra cui il celebre "Infinito") vengono denominati "idilli", per la loro ambientazione e per la raffigurazione di scene di vita quotidiana in esse contenute, la distanza fra questi "idilli" e la poesia bucolica classica è enorme.

Lo spirito di questi componimenti è, quindi, più vicino alle teorie del Romanticismo europeo.

Lo stesso Rosseau utilizzò il termine romantique (romantico) per definire proprio l’atteggiamento di colui che vede il paesaggio come specchio dei propri sentimenti e del proprio stato emotivo, che quindi vede in esso i propri moti interiori.

Per Leopardi i suoi idilli “esprimono situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo”(G. Baldi, S. Giusso, "Dal testo alla storia, dalla storia al testo"); non c’è intento descrittivo o bozzettistico, ma esclusivamente espressivo.

Il paesaggio che vi compare è quindi un paesaggio d’animo, tutto filtrato dalla soggettività, trasfigurato dall’immaginazione e della memoria”

A tale rappresentazione del paesaggio si oppose però Giovanni Pascoli che, per via delle proprie competenze personali nella botanica acquisite grazie al grande periodo di tempo vissuto in campagna, rimprovera a Leopardi la presenza di forti contraddizioni nella sua descrizione della natura.

Ad esempio, ne Il sabato del villaggio, Leopardi descrive una ragazza che si dirige verso la città, di ritorno dal lavoro nei campi, portando con sé: “un mazzolin di rose e viole”.

Pascoli obietta che le rose e le viole sono fiori che non crescono nella medesima stagione, ma in due differenti, bollando quella leopardiana come una descrizione bucolica totalmente irrealistica.

In effetti, analizzando i componimenti leopardiani, sono riscontrabili altre visioni “errate” della natura e del paesaggio. Ne La ginestra si legge: “Qui su l’arida schiena del formidabile monte sterminator Vesevo, la qual null’altro allegra arbor né fiore” (versi 1-2-3-4) e ancora “Questi campi cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti dall’impietosa lava, che sotto i passi al peregrin risona”.

E’ accertato, da più di un secolo, che i materiali depositatisi al suolo dopo un eruzione non sono “ceneri infeconde” che rendono sterile il suolo, ma fungono da veri e propri fertilizzanti naturali.

Nelle strofe successive, Leopardi, descrive la vita miserevole di un contadino che abita alle pendici del vulcano e stenta a coltivare le sue piante su quell “arida schiena”.

La polemica di Pascoli sarebbe più che legittima se Leopardi avesse finalità realistiche, ma così non è.

Alla base della questione c’è un serio fraintendimento delle finalità e dell’essenza stessa della poetica leopardiana. In questo procedimento di filtraggio emotivo e letterario, a cui Leopardi sottopone tutti i suoi paesaggi e le sue stesse esperienze, elementi di realismo vengono necessariamente meno, e non per mancanza d’attenzione, ma semplicemente perché il fine di tale opera non è di certo di tipo bozzettistico.

Ne L’infinito è proprio quel paesaggio vago (o sarebbe meglio definirlo un non-paesaggio) a destare tali emozioni nell’animo del poeta, che rifugge ogni espressione dell “arido vero” a favore dell’immaginazione.

La poesia di Leopardi deve la sua immediatezza e vivacità proprio all’uso di questi simboli, come il mazzolino di fiori e il vulcano che divengono, assieme alla descrizione del paesaggio stesso, pura espressione dell’animo umano.

La descrizione a fosche tinte del vulcano, “formidabil monte sterminator”, simboleggia la facilità con cui la natura spazza via popoli che “un’onda di mar commosso, un sotterraneo crollo distrugge sì, che avanza a gran pena di lor la rimembranza” (La ginestra, versi da 106 a 110), proprio “in conseguenza della nuova poetica dell’ultimo Leopardi, che vuole fare poesia non più con il caro immaginar ma con il vero”.

Così d’altronde il mazzolino di fiori simboleggia l’allegria della festa, a prescindere dai tipi di fiori che lo compongono.

Qui il successivo paesaggio ameno (“Fur liete ville e colti, e biondeggiar di spiche, e risonanza di muggito d’armenti; fu gierdini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio”) viene evocato esclusivamente per accentuare per contrasto la macabra visione del monte distruttore, non certo con finalità bozzettistiche.

Altro fraintendimento, su questa falsariga, è stato quello di Benedetto Croce che nei Grandi idilli considerò esclusivamente la componente idilico-bucolica di questi componimenti, e non tenne in conto quel nuovo equilibrio di “bello” e “vero” di cui il paesaggio si fa portatore.

Commenti all'articolo

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares