Intervista a Ilaria Cucchi: “Non posso perdonare i responsabili della morte di Stefano”
In un lungo colloquio con AgoraVox pochi giorni prima della sentenza, Ilaria Cucchi racconta le “cattiverie” che ha dovuto subire durante il processo per la morte di suo fratello. Critica l'impianto accusatorio della Procura: “Anche i pubblici ministeri possono sbagliare. Però bisogna riuscire ad ammetterlo”. E invoca l'introduzione del reato di tortura.
«Alla fine in aula era anche stato detto: le assicurazioni dei medici pagheranno e saremo tutti contenti. Ma come possono dire che saremo contenti? Piuttosto avrei preferito che venissero tutti assolti, sarebbe stata una sentenza meno ipocrita».
Dopo la lettura della sentenza che ha assolto i poliziotti della penitenziaria e gli infermieri accusati nel processo per la morte di suo fratello, Ilaria Cucchi parla a stenti, fa fatica a trattenere le lacrime ma ce la mette tutta: «Oggi Stefano è stato tradito dalla giustizia per la seconda volta. Mi auguro che nelle motivazioni la Corte non scriverà che non c’è stato nessun pestaggio. Io continuerò ad andare avanti, non mi fermo qui. Però oggi capisco le famiglie che invece decidono di fermarsi».
È sempre stata forte, Ilaria Cucchi. Durante tutto il processo. Udienza dopo udienza. È riuscita a non perdere il controllo nemmeno quando i periti dissertavano per ore dei lividi e delle ossa rotte di suo fratello davanti a un proiettore; nemmeno quando gli avvocati delle difese hanno continuato a parlare di suo fratello come di un drogato che meritava di morire.
«La tenacia, la forza secondo me è indispensabile. Soprattutto quando si chiede una cosa che ci è dovuta. Per noi è stato un processo emotivamente massacrante. È stato un processo svolto per lo più contro la vittima. Io mi trovavo in quell’aula per chiedere giustizia per la morte di mio fratello, e invece ho visto distruggere la sua immagine. La sua, quella nostra e quella dei nostri rapporti familiari. Si è passato più tempo a colpevolizzare la vittima che a parlare di cosa è successo nei sei giorni in cui mio fratello è morto. In quell’aula ho sentito fare domande anche sulla cagnetta di Stefano e su che fine avesse fatto quella cagnetta perché volevano dimostrare che l’avevamo abbandonata per insinuare che i nostri rapporti familiari non erano idilliaci. Non era così, ma se anche lo fosse stato cosa c’entra con l’accertamento della verità su come Stefano è morto?»
Quali sono state le insinuazioni che ti hanno fatto più male?
«C’è stato un avvocato della difesa (Fabrizia Morandi, avvocato del dottor Luigi De Marchis, il medico che visitò Cucchi alla schiena, condannato ieri in primo grado a due anni per il suo omicidio colposo, ndr) che ha esordito dicendo che la foto di mio fratello è terribile e andrebbe mostrata nei centri di recupero per tossici per far capire che di droga si muore in quel modo. È falso. Ditemi tutto, ma quelle ipocrisie, quelle cattiverie gratuite i miei genitori ed io non le meritiamo. Sono tanti gli avvocati che hanno esordito in quel modo, a mio fratello è stato detto di tutto, che non ha mai lavorato in vita sua. Sono processi, quelli come questo per la morte di mio fratello, che ricordano molto quelli per le vittime di stupro: si cerca di crocifiggere la vittima che “se l’è cercata”».
Eppure tu e la tua famiglia in questi anni non avete mai cercato di coprire i momenti e gli aspetti più critici della vita di Stefano.
«Siamo sempre stati onesti nel descrivere Stefano per quello che era, compreso il periodo della tossicodipendenza. Siamo stati talmente onesti che quando abbiamo trovato la droga in casa l’abbiamo consegnata al pubblico ministero. E tra l’altro mi chiedo perché non siano mai state fatte indagini sulla provenienza di quella droga, anziché inserirla nel fascicolo per la morte di mio fratello, che non c’entrava nulla».
Rimani convinta che tuo fratello sia stato picchiato dagli agenti della polizia penitenziaria come aveva ipotizzato l’accusa?
«Vogliamo davvero credere che una persona con una sola caduta riesce a procurarsi decine e decine di lesioni in svariate parti del corpo? Con una sola caduta? E come sarebbe dovuto cadere?! Ci sarebbe da ridere se non si stesse parlando di Stefano. Gli hanno rotto le vertebre in quel pestaggio. La rottura delle vertebre è un dolore fortissimo. Le condizioni di Stefano peggioravano ora dopo ora. In aula abbiamo sentito diverse testimonianze che raccontavano di come Stefano, il giorno dopo l’arresto, faceva fatica anche solo a camminare. Il giorno prima faceva tapis roulant in palestra. Ricordiamocelo sempre».
Secondo te perché tuo fratello, quando gli è stata diagnosticata la frattura al sacro al Fatebenefratelli, ha rifiutato il ricovero?
«Quella frattura gli è stata diagnosticata davanti agli agenti. E lui davanti agli agenti dice che non vuole farsi ricoverare perché lì non si può fumare e perché si fida del medico che l’ha curato. Durante il processo sono state fatte tante polemiche sui numerosi ricoveri di mio fratello durante il periodo della tossicodipendenza. Quindi non era certamente una persona ostile alle cure o contrario a farsi ricoverare in situazioni normali. Io fatico ad immaginare mio fratello che, dovendo scegliere tra tornare in carcere per un mese o starsene in carcere al Fatebenefratelli, dice – soprattutto dopo l’esperienza traumatica che ha appena vissuto – di voler tornare in carcere perché in ospedale non si può fumare».
Cioè pensi che gli agenti della penitenziaria abbiano indotto Stefano a rifiutare le cure?
«No, non a rifiutare le cure. Lo hanno indotto a rifiutare il ricovero».
Il giorno dopo, però, lo hanno riportato di urgenza in ospedale. Lui ha accettato il ricovero, ma lo hanno trasferito subito al Pertini nel reparto di medicina penitenziaria.
«L’hanno sequestrato al Pertini per tenerlo lontano da occhi indiscreti. Il Pertini è una struttura molto peggiore delle carceri: le celle sono singole. Gli agenti le aprono solo per le visite e i controlli. Certo, immagino che chi è in grado di camminare possa circolare per i corridoi, ma mio fratello non poteva. Era rinchiuso in quella cela, da solo».
Perché poi, secondo te, una volta al Pertini, Stefano ha scelto di rifiutare l’alimentazione mentre la sua situazione clinica era già estremamente critica?
«Beh, intanto, leggendo le carte, si scopre che non ha rifiutato alimentazione e cure sistematicamente».
L’ultima notte ha persino chiesto una cioccolata.
«Sì, ed è successo anche in altri momenti. In altri invece ha rifiutato di alimentarsi perché rivendicava un suo diritto: chiedeva di parlare con un avvocato e non gli veniva consentito. Io posso soltanto provare ad immaginare qual era lo stato emotivo di mio fratello in quel momento. Era provato, in situazioni critiche. Paralizzato dalla vita in giù, e immagino cosa possa voler dire per un uomo di trentuno anni non sentire la sensibilità dei propri organi genitali. È stato massacrato e abbandonato lì. E pensava che la sua famiglia ce l’avesse con lui, mentre i miei genitori cercavano in tutti i modi, invano, di poter riuscire a visitarlo. Erano lì in ospedale tutti i giorni e lui non poteva saperlo. Era isolato, privo di qualsiasi contatto con l’esterno».
I periti di Milano hanno fatto un lavoro molto dotto e minuzioso per cercare di ricostruire tutto quello che è successo all’organismo di Stefano per portarlo alla morte.
«Però di fatto non lo hanno spiegato. Io non voglio essere polemica a tutti i costi, non voglio che si pensi che non mi sta bene niente. Ma abbiamo avuto un consulente, il professor Arbarello, che appena ricevuto l’incarico – prima ancora di vedere la documentazione – dichiarò che la colpa era dei medici e che sarebbe stato suo compito dimostrarlo. Aveva già la sua verità preconfezionata. Ed è andato avanti su quella strada. Certo, è molto più semplice portare avanti un processo per responsabilità medica che procedere contro gli uomini delle istituzioni».
Continui a non credere alle conclusioni dei periti?
«La logica mi dice che mio fratello non è morto per caso in quei giorni. Non può essere un caso. Non mi si può dire che mio fratello è morto perché era magro o perché era indebolito dalla tossicodipendenza. Le analisi delle urine hanno dimostrato che in quei giorni Stefano non aveva tracce di droga nel corpo».
Durante la requisitoria il pm Vincenzo Barba vi ha accusato di “dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo” e di averne ostacolato il corso.
«La cosa paradossale è che io ho avuto il massimo rispetto da parte degli avvocati delle difese, ma sono stata continuamente massacrata dai miei pubblici ministeri».
Secondo te, se le cose sono andate come avete ricostruito voi, perché la Procura di Roma ha insistito nel procedere per colpa medica anziché accusare gli imputati di omicidio volontario?
«Quel capo di imputazione era la ferita più grande che ci potessero fare. Ma non voglio parlare di disonestà dei pubblici ministeri: la Procura ha fatto un grande lavoro investigativo. Però ha commesso degli errori. Sia chiaro, io detesto quei medici: avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto. Ma è stato un capo di imputazione totalmente sbilanciato. E però credo che durante il processo, ascoltando le testimonianze, i pubblici ministeri si siano resti conto del loro errore. Io dico questo: tutti possono sbagliare. Anche un pubblico ministero può sbagliare. Bisognerebbe riuscire ad ammetterlo».
Per quale motivo i medici, invece, non avrebbero assistito tuo fratello con la dedizione che avrebbero dovuto?
«C’è stata un’assenza totale di umanità da parte di loro che dovrebbero averne più di chiunque altro. Quelle persone non sono più degne di indossare un camice. Dicono che salvano vite umane. Certo, ma salvo che il paziente sia un detenuto, magari tossicodipendente e con un carattere difficile».
C’è un’indifferenza culturale verso le persone detenute nelle carceri anche da parte di chi, per mestiere e scelta deontologica, dovrebbe prendersene cura?
«Certo. E vale per i medici tanto quanto per gli agenti, che i detenuti dovrebbero assisterli, non massacrarli come ogni tanto avviene. C’è un problema culturale enorme che riguarda tutta la realtà carceraria italiana e più in genere la nostra cultura sociale. In carcere la piramide sociale è invertita: tanto più si è criminali incalliti o boss mafiosi, tanto più si viene trattati bene. Se invece si è extracomunitari o tossicodipendenti si vedono calpestati i propri diritti, anche i più elementari».
Secondo te, in questo momento, l’introduzione del reato di tortura dovrebbe essere una priorità politica in Italia?
«Assolutamente. Se in Italia esistesse il reato di tortura in questo processo avremmo parlato di tortura, non di lesioni. Il nostro paese in questo momento ha problemi enormi, lo sappiamo. Ma per venirne fuori bisogna partire dal rispetto dei diritti umani. Dobbiamo imparare a mettere le persone al centro della vita pubblica».
Alcuni imputati sono sempre stati presenti in aula, durante le udienze. Vi siete mai parlati?
«No. Io non ho mai ricevuto né dagli imputati né dalle istituzioni di cui fanno parte una parola di scuse. Solo una volta uno dei medici, alla fine della sua deposizione, si è avvicinata a mia mamma e le ha detto che era molto dispiaciuta».
Tua madre cosa le ha risposto?
«Che poteva dispiacersi prima».
Se, anziché assolverli o condannarli a pene virtuali, la Corte avesse condannato al carcere tutti gli imputati per la morte di Stefano, saresti stata soddisfatta? Saresti contenta di saperli in carcere?
«Non lo so. Me lo sono chiesta tante volte. Non cambierebbe la mia vita saperli in carcere. Io voglio che si dica la verità, che si dica cosa quelle persone hanno fatto davvero. Senza più ipocrisie».
E se loro lo facessero, se ammettessero di essere responsabili della morte di Stefano, saresti disposta a perdonarli?
«Il perdono è una cosa molto lontana dalle mie capacità. Sono umana, ho dei limiti: non potrò mai perdonare quelle persone. Con il tempo impapererò a convivere con questi sentimenti, ma non posso perdonarli».
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