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Pomigliano e la scelte che non abbiamo fatto mai

Non avemmo il coraggio di fare scelte chiare nei cruciali anni 70; c’illudemmo negli anni 80 e abbiamo sprecato il successivo ventennio: per le imprese e per il Paese è arrivato il momento di prendere delle decisioni. Se non è troppo tardi.

Pomigliano e la scelte che non abbiamo fatto mai

Il 20 maggio del 1970, quasi esattamente quarant’anni fa, l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori segnalava il ricongiungimento dell’Italia, dopo una rincorsa durata un quarto di secolo, con i paesi economicamente e socialmente più sviluppati.
 
La ricostruzione ed il successivo boom economico vennero alimentati da un costo del lavoro bassissimo, grazie a stipendi che erano una frazione di quelli pagati nel nord Europa e alla più totale mancanza di diritti dei lavoratori italiani; i sindacati erano presenti solo in poche grandi fabbriche e in ampli settori della nostra economia i dipendenti avevano ben poche garanzie e nessuna rappresentanza.
 
Fino a quel momento, per molti versi, il nostro era un paese in via di sviluppo e dei paesi in via di sviluppo aveva utilizzato le più classiche strategie: le nostre aziende - salvo poche eccezioni - esportavano prodotti di qualità da medio-bassa a pessima, spesso brutte copie di prodotti stranieri, a prezzi resi competitivi non dall’alta produttività del nostro sistema economico, ma semplicemente dallo sfruttamento della manodopera.
 
Suona familiare questa ricetta? Sì: eravamo noi i cinesi del mondo occidentale, un po’ come lo erano i nostri ex alleati giapponesi e come iniziavano ad esserlo i sud coreani.
 
L’approvazione dello statuto - doverosa presa d’atto delle mutate condizioni economiche e sociali del paese, si badi bene, non certo munifico regalo piovuto dal cielo - avrebbe dovuto anche segnalare alla nostra classe dirigente che quel modo di produrre, e di competere, era giunto alla fine: il costo del lavoro italiano si avviava ad essere comparabile con quello degli altri paesi sviluppati.
 
La strategia da seguire, per le nostre industrie che volessero prosperare o almeno sopravvivere nelle nuove condizioni, sembrava obbligata: davanti all’aumentato costo della manodopera avrebbero dovuto avviare produzioni a più alto valore aggiunto.
 
Detto altrimenti, nel nostro paese avremmo dovuto iniziare a produrre beni che giustificassero, sui mercati internazionali, un prezzo tale da poter pagare, ai nostri lavoratori, dei salari dignitosi.
 
Potevamo arrivare a questo risultato in due modi: entrando in mercati nuovi e più remunerativi oppure migliorando drasticamente la qualità dei nostri prodotti tradizionali.
 
Alcune piccole e medie aziende scelsero la prima soluzione; molte, seppure con delle ritrosie, la seconda.
 
La FIAT, basti pensare a Ritmo, Argenta e Regata – i prodotti della casa Torinese a inizio anni ottanta – è paradigmatica di quella che fu la terza via scelta da moltissime aziende grandi e piccole: non fare proprio un bel niente e barcamenarsi grazie agli aiuti di una classe politica che, persi gli ideali che sorressero i padri costituenti, si avviava ad essere quella ignobile dell’era del pentapartito, diretta progenitrice di quella attuale che, per carità di Patria, mi astengo dal qualificare.
 
Per le grandi aziende gli aiuti ebbero una duplice natura.
 
Sul fronte dei fatturati le si sostenne con commesse da parte della pubblica amministrazione, in un clima di assoluto protezionismo – le sempiterne Alfa dei Carabinieri, piuttosto che gli onnipresenti computer Olivetti - a prezzi che spesso poco avevano a che vedere con quelli di mercato.
 
Sul fronte del costo del lavoro si provvide a mitigare gli effetti dell’introduzione dello statuto consentendo un ampio ricorso a tutta una serie di ammortizzatori sociali.
 
Ad aiutare le piccole si provvide, democristanamente, lasciando piena libertà d’evasione fiscale e permettendo un amplissimo ricorso al lavoro nero.
 
Una politica dei cambi opportuna, con periodiche svalutazioni della lira, fece il resto: larghi settori della nostra economia sono riusciti a sopravvivere in un sostanziale immobilismo a spese, in buona sostanza, dell’intera comunità nazionale.

Il debito pubblico che ci opprime si spiega anche così.

E’ sempre quel debito che c’impedisce, oggi, di offrire un qualunque reale sostegno alla nostra economia; è lo stesso debito che ha reso obbligata la scelta di aderire all’Euro che rende impossibile ora - ammesso che i nostri concorrenti/clienti ci avessero consentito di continuare indefinitamente con questa pratica – di pensare a ricorrere ad una svalutazione competitiva.

Le scelte che dovevamo compiere negli anni 70 si ripresentano, oggi, in condizioni assai più drammatiche; siamo forse all’ultima possibilità.

A Pomigliano d’Arco si ripete uno spettacolo visto per decenni, con i lavoratori – e lo stato – costretti a cedere di fronte al ricatto di un’industria che non sa competere se non succhiando denari pubblici, in una maniera o nell’altra e comprimendo, in un modo o nell’altro, i salari.

Forse se la FIAT si fosse decisa a produrre auto decenti qualche anno prima ora avrebbe altre opzioni; forse se avesse saputo riposizionarsi sul mercato, evitando di sperperare il capitale di marchi come Alfa Romeo e Lancia non sarebbe costretta spremere come limoni i propri operai. Forse potrebbe produrre auto diverse, le vere auto di domani, e in un altro modo. Forse…

Molti forse e un’unica certezza: i salari reali italiani sono già i più bassi dell’Europa occidentale; i lavoratori dipendenti italiani del settore privato hanno già fatto tutto e per intero il proprio dovere.

Non sono competitive le aziende, ma per renderli tali servono capitali da sottrarre alle rendite finanziarie e scelte che richiedono idee e fiducia nel futuro da parte degli imprenditori.

Non è competitivo il sistema paese nel suo complesso, ma renderlo tale richiede capitali da investire – e per trovarli non resta che pensare a una qualche forma di tassa sui patrimoni – e una serie di scelte comunque impopolari.

Le risposte che la classe politica e tanta parte dell’imprenditoria italiana hanno evitato di dare quarant’anni or sono, adesso, sono ineludibili.

Qualunque cosa si decida di fare servirà, come diceva un canzone, tanto, ma tanto coraggio. E tanta, ma tanta, onestà, non solo intellettuale: chi ruba, o si pensa che rubi, sacrifici al Paese non ha l’autorità morale per chiederne.

Sacrifici di sicuro ne serviranno, ma, stavolta, è inutile chiederli ai soliti di sempre: hanno già dato.

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