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La celebrazione di Calabresi tra fini istituzionali e resistenze della pubblicistica

L’evoluzione nella pubblicistica nostrana della rappresentazione della figura del commissario Luigi Calabresi, dalla morte di Giuseppe Pinelli nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969 ad oggi.

La celebrazione di Calabresi tra fini istituzionali e resistenze della pubblicistica

Lucy Riall nel suo Garibaldi. L’invenzione di un eroe (Roma-Bari, 2007) ha scritto come la celebrità dell’eroe dei due mondi «fu il risultato di una precisa strategia politica e retorica» (p. XXVII) e che obiettivo del suo culto «fu di sostenere, promuovere e giustificare un processo di violento e rapido mutamento di regime» (p. 324). Giorgio Agosti, in una missiva dei primi anni Sessanta, quando, agli albori del centrosinistra, si sarebbe messo in moto il processo che avrebbe portato in auge la Resistenza quale elemento fondante e caratterizzante la Repubblica, osservava che tra le funzioni degli storici vi fosse quella «di creare in un certo modo il “mito della Resistenza”, così come fecero gli Abba, i Settembrini, i D’Azeglio, i Bandi, i Nievo, e quanti altri crearono il mito del Risorgimento, depurarono cioè quella che fu una grande giornata della nostra storia dalle scorie che ogni grande avventura storica non può non contenere» (lettera a Lucilla Jervis del 30 giugno 1962, in W. Jervis, L. Jervis Rochat, G. Agosti, Un filo tenace. Lettere e memorie 1944-1969, Scandicci, 1998).
 

Questo fenomeno, che plasma la fisionomia di personaggi ed eventi per renderli funzionali alle esigenze etico-politiche del momento, è pienamente leggibile anche nell’evoluzione che ha conosciuto nella pubblicistica nostrana la rappresentazione della figura del commissario Luigi Calabresi, dalla morte di Giuseppe Pinelli nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969 ad oggi.

Come ha ammesso Adriano Sofri (La notte che Pinelli, Palermo, 2009), su Calabresi «si credettero e si dissero […], per partito preso, cose del tutto false» (p. 23). «L’Unità» nel gennaio del 1970 accusò Calabresi di essere stato un uomo della Cia; «Lotta Continua», un mese dopo, riferiva di come il commissario avesse in passato introdotto generali americani «nei salotti Sifar-Sid». Tutte balle.

Camilla Cederna, però, che sulle colonne de «L’Espresso» seguì il caso Pinelli, fu testimone oculare del clima violento della Milano a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Nel suo Pinelli. Una finestra sulla strage, del 1971, ricorda di aver visto Calabresi «in azione» nel settembre 1969:«per ben due volte in settembre (un giorno in occasione di una manifestazione di anarchici che protestavano contro la reclusione dei loro compagni, un altro giorno durante uno sciopero della fame fatto sempre davanti al palazzo di giustizia per solidarietà coi detenuti), sui dimostranti avevo visto abbattersi a ondate successive gruppetti di funzionari di questura. Con scatto deciso e cupa eccitazione, a più riprese i questurini eran balzati fuori dalla 1100 blu a strappare i cartelli, a minacciare i dimostranti, infine a malmenarli con durezza. Sempre di corsa e in composizione alterna erano cinque uomini fra cui i commissari Pagnozzi e Zagari, il vicequestore Luigi Vittoria, e il più ginnastico ed elastico di tutti, precisamente il bruno Calabresi, dal ciuffo denso e il colletto dolcevita» (pp. 11-12, Milano, ed. 2009). Prima della morte di Pinelli alcuni anarchici avevano denunciato nelle loro lettere violenze e intimidazioni che avrebbero subito durante interrogatori condotti da Calabresi (Cederna, pp. 30-31; Sofri, pp. 88-90. Nei processi a loro carico, peraltro, non si diede credito a queste denunce).

Un’immagine un po’ diversa, dunque, da quella che ci rimanda il figlio di Calabresi, Mario (Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Milano, 2007), che ci presenta il padre come «il più giovane, il più visibile, il più dialogante. Uno dei pochi a distinguersi tra i poliziotti d’allora: la sua idea era che non si dovesse puntare sulla repressione e allora andava a casa di Feltrinelli, discuteva con i manifestanti, camminava accanto ai cortei» (ed. 2009, pp. 43-44). Un poliziotto che scambiava con Pinelli anche libri. Mario Calabresi ricorda infatti come un giorno la madre (Gemma Capra, autrice nel 1990 di Mio marito, il commissario Calabresi) gli avesse «dato da leggere l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e mentre me la allungava, ma continuava a tenerla stretta in mano, mi raccontò che era stato Pinelli a regalarla a papà, un Natale. Non so dire se fossero amici, erano su sponde diverse, e ci vuole pudore quando si parla dei morti» (p.54). Testimonianza affine a quella offerta, nei primissimi anni Ottanta, dalla vedova di Pinelli, Licia, che ha scritto:«la differenza tra me e Pino era questa: per me il poliziotto era il diverso che non volevo neppure mettesse un piede in casa mia, per lui invece era un uomo. Io sono sempre stata così mentre lui è sempre stato nell’altro modo. Cioè lui dava a tutti la possibilità di esprimersi perché in tutti vedeva del buono» (Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, 2009, p. 88, I ed. 1981).

Anche sulle responsabilità del commissario nella morte di Pinelli gli accertamenti giudiziari non dissipano per alcuni zone d’ombra e ambiguità. Nell’appello del 1971, firmato da più di 700 intellettuali, si indica in Calabresi colui che «porta la responsabilità» della fine del ferroviere. La vedova Pinelli, nel volume citato, rifiutava però la logica del capro espiatorio:«agli occhi della gente, lui e solo lui era l’imputato. Per me erano tutti imputati allo stesso modo, compreso il questore e più su» (pp. 82-83. In verità anche l’appello di cui sopra fa riferimento a «commissari torturatori», alludendo quindi, oltre che a Pinelli, a Antonino Allegra, commissario capo).

Nel frattempo era intervenuta, nell’ottobre 1975, la sentenza, firmata da Gerardo D’Ambrosio, che chiudeva l’istruttoria sulla morte di Pinelli, prosciogliendo tutti gli imputati, compreso Calabresi, tranne Allegra (per il fermo illegale) che beneficia però dell’amnistia. D’Ambrosio nella sentenza definisce l’ipotesi del lancio volontario dalla finestra di un Pinelli «inanimato» (per svenimento o collasso a causa della stanchezza) di «assoluta inconsistenza», quella del suicidio, «possibile ma non verosimile» e quella, infine, dell’ipotesi di malore, «verosimile» (cfr. Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, a cura di A. Sofri, Palermo, 1996).

Enrico Deaglio, nel settembre 2004 (Cederna, op. cit., p. XI), parla di «certe perizie mediche» («certe perizie mediche», espressione che suona ambigua; l’aggettivo certe è da intendersi come sinonimo di alcune o contiene, maliziosamente, un giudizio di inaffidabilità?) di cui D’Ambrosio si sarebbe avvalso per dare spessore all’«ipotesi di precipitazione per improvvisa alterazione del centro di equilibrio» (Il malore..., cit., p. 64). «In pratica - prosegue Deaglio - l’anarchico (alto un metro e 65 centimetri) si sentì male, ma, invece di accasciarsi al suolo, ebbe una convulsione improvvisa che lo portò a scavalcare la ringhiera posta a protezione della finestra, alta un metro e 68 centimetri (Cederna, op.cit., p. XI). Un metro e 68 contro un metro e 65? A dar retta ai numeri di Deaglio verrebbe voglia di coprire di insulti gli ’innocentisti’, D’Ambrosio in testa. Peccato, o per fortuna, i numeri accertati sono altri. La ringhiera era alta 97 centimetri dal pavimento (Il malore attivo..., cit., p. 65). Anche Sofri, che pur rivolge delle critiche alla sentenza di D’Ambrosio, non presta attenzione ai numeri di Deaglio. Egli sviluppa altre argomentazioni, che costituiscono in verità un durissimo j’accuse nei confronti del giudice istruttore campano. La sentenza di D’Ambrosio, infatti, cederebbe «nei suoi punti essenziali» al «romanzo psicologico» (Sofri, op. cit., p. 155). Di più; essa fu «un rassegnato tentativo di chiudere col minimo danno. Calabresi era morto assassinato, l’inchiesta si era di fatto interrotta lì, e intanto D’Ambrosio, dal marzo 1972, si misurava coraggiosamente con l’indagine su piazza Fontana […] e gli restava solo da evadere la pratica per “omicidio volontario” di Pino Pinelli» (ivi, p. 58). Inutile perdere tempo, insomma, con un’inchiesta compromessa. Ne La notte che Pinelli, probabilmente la ricostruzione più articolata della morte del ferroviere anarchico, che non possiamo commentare compiutamente in questa sede, Sofri dà atto a D’Ambrosio di aver dimostrato la falsità di alcune tesi in circolazione prima della sentenza, come quella, ad esempio, che fosse stata fatta a Pinelli una iniezione di pentotal, per farlo parlare, iniezione che avrebbe provocato un collasso. In verità, il segno che appariva alla piega del gomito del cadavere di Pinelli, come dichiarato dai medici dell’ospedale che soccorsero il ferroviere moribondo, era stato prodotto dalla somministrazione di flebocortid per via endovena.

La contestazione principale di Sofri è allora un’altra; per formulare l’ipotesi del malore, infatti, D’Ambrosio fu costretto a contraddire sia i periti d’ufficio che quelli di parte civile, entrambi concordi nell’escluderlo (ivi, p. 139). Sofri però non dà conto delle ragioni che inducono D’Ambrosio a smentire i periti. Questi, difatti, avevano fissato il punto di caduta a quattro, cinque metri dalla parete su sui si apriva la finestra dell’ufficio di Calabresi, punto di caduta incompatibile con l’ipotesi del malore, «facendo una media aritmetica tra le varie distanze indicate dai testimoni. Questo criterio statistico - asseriva D’Ambrosio - non può essere assolutamente accettato sul piano processuale» (Il malore..., cit., p. 50). D’Ambrosio concludeva, in base alle deposizioni raccolte e confortate da circostanze obiettive ritenute incontrovertibili (come l’albero, accanto al quale il barelliere dell’autoambulanza trovò Pinelli, distante a meno di tre metri dal muro della questura, ivi, p. 49), che l’ipotesi del malore fosse quella più verosimile. La ricostruzione giudiziaria di D’Ambrosio è, evidentemente, come qualsiasi altra ricostruzione, censurabile, ma non riportare tutti gli elementi su cui essa si poggia vuol dire tentare di indebolirla ricorrendo a colpevoli omissioni.

Difendiamo, quindi, il diritto di Sofri di affermare, come egli fa a mo’ di conclusione del suo lavoro, di non sapere cosa «sia successo, quella notte, al quarto piano della Questura» (Sofri, op. cit., p. 227), come anche il diritto della vedova Pinelli di sostenere che ci sono ancora molti che non vogliono la verità non solo sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia, ma anche sulla morte del marito; «mi aspetto - confida Licia Pinelli nel 2009 a Piero Scaramucci - che nascano altri ostacoli, altri depistaggi, oppure che si dica che ora tutto è chiuso, che si è fatta pace e non c’è più bisogno di altro. Invece il riconoscimento che Pino è stato una vittima innocente non chiude, anzi rende ancora più necessario che si aprano i cassetti e venga fuori la verità» (Licia Pinelli, Piero Scaramucci, op. cit., pp. 125-126). Affermazioni quest’ultime, gravissime ma non necessariamente infondate e comunque legittime; assolutamente incompatibili però con la ’banale’ verità processuale disegnata da D’Ambrosio, affermazioni che evocano le zone d’ombra e le «scorie» di cui all’inizio e che risultano non funzionali al tentativo, assolutamente doveroso sotto il profilo istituzionale, del Presidente della Repubblica di accomunare le figure di Calabresi e Pinelli nel «Giorno della memoria» delle vittime del terrorismo.

 

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