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L’arte di vivere

Il mio compaesano Nicola Zingarelli pubblicò nel lontano 1895 un opuscolo intitolato Dante e Roma. E’ uno studio che mira a mettere in luce gli elementi del preumanesimo di Dante, con esauriente abbondanza di citazioni di quel sentimento, così vivace nell’animo del sommo poeta, di una continuità ideale tra la civiltà latina e quella medievale.

La grande intuizione del preumanesimo dantesco è contenuta nel De Monarchia, e propriamente dove il poeta esalta la giustizia romana: "populus ille sanctus, pius et gloriosus propria commoda neglexisse videtur,ut publica pro salute umani generis procuraret (quel popolo santo, pio e glorioso sembra trascurare il proprio vantaggio, per la salvezza del genere umano)".

Così egli mostra di aver inteso il mondo romano nella sua realtà più feconda e nei suoi valori più nobili, cioè nella maestà di quelle istituzioni giuridiche, attraverso le quali la civiltà latina ha dato, al di fuori delle scuole filosofiche, una mirabile testimonianza di saggezza e di equilibrio umano.

Come bene ha osservato il De Ruggiero, “l’originalità vera di Roma è il suo diritto, che è per essa ciò che per i Greci è la filosofia: è la sua filosofia stessa, in un significato moderno, come centro d’irradiazione della vita e riflessione feconda della vita nel suo principio”.

E l’acutezza della dell’intuizione dantesca troviamo anche in un analogo giudizio del Vico, secondo il quale "la cagione che produsse ai Romani la più saggia giurisprudenza del mondo è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo".

E questa è certo una lezione di saggezza e di equilibrio, contro tutte le ignobili storture e le deformazioni storiche a cui abbiamo assistito sia a cavallo dell’ultimo conflitto mondiale sia in tempi più recenti. L’esito infelice e disastroso dell’ultima guerra mondiale determinò una diffusa mentalità antiumanistica e atteggiamenti polemici, che secondando le mene di una propaganda insidiosa tendono ad interpretare la coscienza politica della romanità come espressione di un impuro e pericoloso nazionalismo.

Per intendere questo orientamento, che spesso ha assunto pose di irrisione o avversione al passato, bisognerà tener conto delle ricorrenti istanze positivistiche. E dal positivismo è nata la tendenza a considerare il progresso del vivere civile in relazione al progresso della tecnica e delle scienze empiriche. Tutto esige oggi una perfetta efficienza tecnica, promotrice di un sempre maggiore sviluppo economico. Nell’espansione dell’economia trova il suo fondamento l’arte stessa del vivere. Ed è più che naturale che in tempi di conformismo materialistico come questi sia nata la polemica contro il latino e la cultura umanistica come nucleo centrale dei nostri studi.

Perché costringere a leggere Cicerone un ragazzo che vuole diventare ingegnere elettronico?

Occorreva dunque cambiare sistema, procurando che un ragazzo destinato ad essere ingegnere cominciasse dalla più tenera età a familiarizzarsi con le apparecchiature elettroniche. Non si trattava dunque di attuare caute o moderate riforme, ma, come hanno suggerito nel tempo insigni “esperti” di pedagogia, di rovesciare i nostri metodi didattici. Avremmo avuto così un mondo di puri specialisti e la vita sarebbe stata più bella e facile ed il latino morto e sepolto, o appannaggio di una sparuta schiera di nostalgici, eredi di una “secolare retorica”, come insignificante testimonianza di un’epoca che, in confronto alla presente così matura e progredita, sarebbe sembrata preistorica.

Senza dubbio si verifica oggi qualcosa di profondamente diverso da quello che era avvenuto nel Rinascimento. Perché allora la coscienza della modernità era nata dall’idea di una continuità della storia umana e dalla consapevolezza della storicità della nostra vita spirituale. Il presente, nella sua complessità e maturità, trovava alimento nel passato, e da questo attingeva energia per esplicare una sempre maggiore ricchezza di esperienze e per affermare la propria originalità.

L’emancipazione dello spirito non significava rifiuto o disprezzo del passato, anzi implicava una spontanea subordinazione agli antichi maestri di umanità. Dei quali invece noi crediamo di poter fare a meno incondizionatamente, dal momento che i fermenti della nuova civiltà e del nuovo benessere sociale vengono da altre latitudini. E sorridiamo compassionevolmente delle illusioni a cui indulsero i nostri antenati, senza accorgerci di quante vanità e di quanti inganni sia intessuta la nostra esistenza.

Il mio punto di vista potrebbe parere donchisciottesco. Ma non pretendo di far rivivere istituzioni e tradizioni di cultura che sembrano definitivamente sommerse dalla metodologia sociologica e dal conformismo esistenzialistico.

Senza dubbio l’efficacia delle humanae litterae non sembra che possa essere riconosciuta in avvenire, dal momento che la pedagogia contemporanea s’è messa in testa che ognuno debba imparare senza fatica e dal momento che il mito dominante nella società odierna è quello dell’efficienza tecnica ed economica. Mito, in quanto sembra garanzia di magnifiche sorti, e non è altro che un’ipotesi assurda e ridicola, alla quale mi piace opporre le parole del poeta latino Lucrezio e che, per non scandalizzare nessuno, riporterò nella traduzione italiana:

<<E forse, vedendo le tue legioni spandersi ampiamente nel campo, suscitando immagini di guerra….. rifulgenti d’armi e animose, forse che atterrite da questi apparecchi le superstizioni fuggiranno tremanti dal tuo spirito, e il terrore della morte lascerà il tuo cuore sgombro e privo di affanni?>>

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