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The road: John Hillcoat rappresenta una civiltà

Potente rappresentazione di una civiltà sull'orlo del baratro, The Road riprende l'omonimo romanzo di Cormac McCarthy, dando alla vita una sinfonia possente e poetica.

Lupi famelici senza futuro sono diventati gli uomini, quei pochi che ancora si aggirano sulle strade americane, sopravvissuti a una catastrofe incomprensibile, ma che deve essere qualcosa di molto simile alla fine del mondo. Derubano e uccidono oppure vagano verso mete improbabili, in un paesaggio cinereo – scene a colori sono solo quelle in cui il protagonista ricorda la sua vita com’era - disseminato di cadaveri dove tutto è distrutto e cadente. Gli strumenti che rendevano comoda ed efficiente la civiltà occidentale, le auto, le costruzioni, le strade, sono precocemente fatiscenti. Un papà e il suo bambino vanno verso il mare, la mamma, che pure glielo ha suggerito, ha rinunciato a intraprendere quel viaggio, si è lasciata morire perché, diceva, “non mi basta sopravvivere” e comunque molte altre famiglie lo facevano, lasciarsi morire piuttosto di intraprendere un vagare senza speranza.

Ma togliersi la vita è un lusso che non possiamo e non dobbiamo permetterci. Questo papà dà speranza al figlio o da lui soprattutto ne trae, lo convince che ci sono ancora i buoni, quelli che hanno il fuoco dentro. Il bambino, è scritto nel libro di Cormac McCarthy (premio Pulitzer 2007), “era la sua garanzia. Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato”. È dunque anche un film d’amore tra padre e figlio, e il lungo tragitto è anche preparazione alla vita – quale che sarà, in luoghi da post fine del mondo – e si scambiano amore reciproco come nessun verbo di Dio potrebbe mai. D’altra parte Dio, se ve n’è uno, dice il vecchio decrepito che incontrano sulla loro strada (nientemeno che Robert Duvall), “ci ha voltato le spalle”. È sempre il vecchio a dire che “c’erano stati dei segnali” premonitori di quel disastro, forse l’umanità non meritava più un mondo e forse di lupi famelici il mondo in effetti è già ora abitato. Il libro e il film ne potrebbero essere una rappresentazione esacerbata.

È il bambino la speranza, è lui che dà la mano al vecchio, e cibo, il vecchio ha creduto di star sognando quando ha rivisto un bambino, credeva fosse un angelo. A lui pian piano tocca preoccuparsi di suo padre, sempre più malandato ogni giorno che passa, ma i giorni e le stagioni ormai non contano, non ci sono più calendari. Il bambino ha portato con sé qualche oggetto della sua vita precedente, come un orsacchiotto e la forcina per capelli della mamma, per la sua stessa natura e per l’umanità che ancora possiede è proteso alla vita, vorrebbe ancora giocare quando intravede un bambino.

Che in questo clima da fine della civiltà il bambino possa incontrare una nuova famiglia è inverosimile ma è anch’esso un atto di speranza, un approdo a quel peregrinare, che McCarthy ha previsto nel suo libro, di cui il film è rappresentazione fedele. Film di John Hillcoat a lungo non comprato fuori dagli Usa perché ritenuto troppo deprimente, in realtà lascia solo buone sensazioni.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.19) 26 agosto 2013 19:17

    Il film "in realtà lascia solo buone sensazioni". Così conclude l’autore dell’articolo.

    Francamente mi riesce difficile capire quali siano le buone sensazioni provate dall’autore.

    Ho letto il romanzo e ho visto il film, uno dei rari casi nei quali il film non scompare nel raffronto con il romanzo.
    La vita sulla terra si è spenta, tutto è bruciato, dall’erba agli alberi, tutti gli animali sono morti dagli insetti ai mammiferi ai pesci, sono rimasti solo pochi uomini che vivono del poco cibo inscatolato che ancora si trova e della carne degli altri esseri umani.
    I due protagonisti vagano in cerca di non si sa che cosa. La moglie del protagonista sceglie il suicidio, la donna, la riproduttrice della specie, ha scelto la morte perché non c’è alcuna speranza, la vita sulla terra è agli ultimi terribili battiti.
    Cosa abbia provocato la fine non si sa, ma potrebbe essere stata una qualsiasi catastrofe cosmica a provocare l’estinzione della vita, gli ultimi uomini che vagano sulla terra non hanno alcuna speranza,svaniti tutti i sogni dell’umanità, svanito dio, la terra si è trasformata in un pianeta sterile che attende la morte degli ultimi cannibali.

    Il film è fatto ottimamente e il protagonista è di una bravura eccezionale, ma l’unico messaggio che sembra lanciare è: attenzione, potrebbe anche finire così. E più che "buone sensazioni" sembra suggerire riflessioni sulla fragilità della vita.

  • Di (---.---.---.38) 29 agosto 2013 17:25

    Due persone che hanno visto lo stesso film e letto lo stesso romanzo ne hanno ricavato impressioni nettamente contrastanti, peccato che non sia intervenuto qualcun altro a chiarirmi l’opinione su un romanzo e che non ho letto e un film che non ho visto, ma che a questo punto spero di fare .

  • Di (---.---.---.123) 29 agosto 2013 19:43

    Alle sensazioni non si comanda ... D’accordo sull’aderenza del film al testo del libro e all’atmosfera. Le buone sensazioni che mi lascia il film derivano dal grande amore tra padre e figlio, il primo perché lo vuole ad ogni costo proteggere e insegnargli a darsi da fare quando non ci sarà più, il secondo perché non può non essere legato al padre e col peggiorare della sua salute se ne preoccupa ("tocca a me preoccuparmi!"). Dall’umanità che emana nell’incontro vol vecchio Duvall e in fondo anche col ladro negro. Dalla disponibilità della nuova famiglia ad accogliere il bambino. In mezzo a tanta disperazione ci sono i "buoni" col fuoco dentro: con tutta "la fragilità della vita" citata e mostrata, pur pensando che tutta quell’umanità è votata alla fine, ecco le sensazioni buone. Saluti.

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