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Tatami

Un film spettacolare, un thriller teso, che fa parteggiare per chi cerca la libertà e non le imposizioni di un sistema.

 La macchina da presa sapiente inquadra il paesaggio che scorre dai finestrini del pullman, monotono, è l'Iran. Chiuderà con delle immagini più varie, viste dai finestrini di un autobus che corre verso Parigi, con le atlete di judo che concorreranno sul tatami tra i rifugiati. I visi inquadrati all'inizio raccontano di atlete determinate, pensano alle medaglie che meritano e ai duri allenamenti fatti, ai sacrifici. L'inquadratura si sofferma su Leila Hosseini, la più quotata, in Iran con lo hijab a coprirle i capelli, da rifugiata in Francia con la chioma libera.




E' “guida suprema” la parola chiave del film: quella che tutto determina nella vita degli uomini e ancor più delle donne, il falso volere di un dio chissà quale: ogni regime autoritario ne ha uno tutto suo, a propria immagine e somiglianza, quello del potere, iraniano in questo caso. Ci si può ricordare del recentissimo Kafka a Tehran (“lo Stato che s'infiltra nel vissuto dei cittadini”). La medaglia per Leila “non s'ha da fare”, perché in finale dovrebbe incontrare l'atleta israeliana, e la politica o guida suprema non riconosce Israele. E tutti i loschi figuri del regime sguinzagliati dapprima per controllare i parenti dell'atleta “dissidente” da ricattare (altre persone in pericolo per colpa mia!), poi nello stadio dove si gareggia, per monitorare i comportamenti e le intenzioni dell'atleta e della sua allenatrice, Maryam, che a suo tempo ubbidì al regime ed ora si redime contagiata dalla convinzione della judoka. Leila è incoraggiata via telefono dal marito che col loro bambino oltrepassa la frontiera e la sostiene. Una speranza dei tanti che si rassegnano e piegano la testa, ma solo il coraggio di pochi spinge alla fuga.

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