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Palestina-Israele | Gli accordi di Oslo sono nati morti

Intervista a Gilbert Achcar raccolta da David Nassar per L’Orient-Le Jour. 

 

25 anni dopo gli accordi di Oslo, il processo di pace tra israeliani e palestinesi è a un punto morto. Il governo israeliano di Benyamin Netanyahu – il più a destra dello Stato sionista – non vuol sentir parlare di negoziati di pace. La leadership palestinese sembra incapace di gestire il fallimento della dinamica lanciata da Yasser Arafat. Il principale mediatore, gli Stati Uniti, ha rotto – con l’arrivo di Trump al governo – con la sua politica di diplomazia tradizionale che mirava a non prendere decisioni che potessero nuocere al processo di pace. Come spiegare questa evoluzione, che aggrava lo squilibrio dei rapporti di forza tra israeliani e palestinesi e allontana qualsiasi prospettiva di pace? Il Prof. Gilbert Achcar della School of Oriental and African Studies (SOAS, University of London), autore di numerose opere, tra cui Les Arabes et la Shoah : la guerre israélo-arabe des récits (2010), offre a L’Orient-Le Jour qualche chiave interpretativa per comprendere la svolta degli eventi a partire dagli accordi di Oslo.

Gli accordi di Oslo sono morti e sepolti?

Gli accordi di Oslo sono nati morti. Faccio parte di quella minoranza che, nel 1993, ha criticato quegli accordi e ha messo in guardia sull’impasse che si profilava. Il più celebre tra i critici all’epoca era Edward Said. Quegli accordi si sono fondati su una specie di speranza ingenua di Yasser Arafat e della direzione palestinese di riuscire ad avviare una dinamica che consentisse loro di raggiungere l’obiettivo di uno Stato palestinese indipendente. Su questa base hanno accettato di firmare quegli accordi rinunciando alle principali condizioni fino a quel momento portate avanti dai negoziatori palestinesi, soprattutto quelli dell’interno. In modo particolare, il congelamento delle colonie senza dimenticare la questione di Gerusalemme e quella dei profughi.

Dal lato israeliano, non vi era nessuna illusione né ingenue speranze, la prospettiva era molto diversa. Gli accordi di Oslo si inscrivevano nella prospettiva sviluppata fin dal 1967: controllo della Cisgiordania senza le zone più densamente popolate (dai palestinesi, NDT), che avrebbero cambiato l’equilibrio demografico. La colonizzazione della Cisgiordania mira a creare l’annessione di fatto di questo territorio, lasciando le zone popolate (dai palestinesi, NDT) sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese che si è ritrovata a svolgere il ruolo di una specie di “polizia per procura”.

La situazione più simile a ciò che è diventata l’Autorità Nazionale Palestinese è quella dei bantustans del Sudafrica. Ossia, i sedicenti Stati per le popolazioni nere che erano nei fatti sotto controllo dello Stato sudafricano al tempi dell’apartheid. Come avevano previsto coloro che li criticavano, lungi dall’arrivare ad uno congelamento e al successivo smantellamento delle colonie, gli accordi di Oslo hanno permesso un’accelerazione della colonizzazione. L’espansione delle colonie è raddoppiata tra il 1993 e il 2000, più che tutto il periodo tra il 1967 e il 1993.

Come è possibile che Oslo abbia consentito l’accelerazione del processo di colonizzazione dei territori palestinesi?

Gli accordi di Oslo hanno creato la calma necessaria che era propizia all’accelerazione della colonizzazione. Il controllo del lato palestinese da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese ha ridotto considerevolmente i rischi di attentati e di manifestazioni. Il movimento sionista ne ha approfittato per intensificare la colonizzazione.

Come si spiega l’impasse attuale?

Il processo era in crisi acuta fino alla morte di Yasser Arafat nel 2004. Mahmud Abbas, il candidato preferito dall’amministrazione Bush, gli è succeduto e, malgrado il fatto che egli si sia spinto più di qualunque altro dirigente palestinese nella sottomissione ai desideri israelo-americani, non ha ottenuto nulla. È chiaro che siamo di fronte ad impasse totale, che era del tutto prevedibile al momento della firma degli accordi di Oslo.

Oggi la situazione è stata aggravata dal fatto che dal 2017 negli Stati Uniti è al governo un’amministrazione che va ben al di là del tradizionale partito preso a favore di Israele dei governi americani. C’è un’amministrazione che ha affinità con l’estrema destra israeliana e che sta preparando, secondo me, le condizioni politiche per un’annessione ufficiale da parte di Israele dei territori della Cisgiordania sotto suo controllo.

Questa annessione come sarebbe giustificata presso la comunità internazionale?

Questa sarebbe nella logica dell’estrema israeliana, che vuole una separazione unilaterale. Il suo problema è: cosa fare dei territori palestinesi che restano? L’amministrazione Trump, tramite Jared Kushner, ha cercato di convincere la Giordania di riprenderne il controllo. Ma evidentemente, i giordani non vogliono questa patata bollente. Ci si avvia verso un’annessione ufficiale, de jure. Il pretesto sarà il rifiuto palestinese del famigerato piano di pace americano. Gli israeliani allora diranno: “Ecco, i palestinesi hanno sempre rifiutato i piani di pace, quindi agiremo unilateralmente e annetteremo i territori”.

La colonizzazione è irreversibile?

No, sarebbe possibile ribaltare il processo se ci fosse la volontà americana d’imporre a Israele il ritiro dai territori occupati fin dal 1967. Ovviamente questo non sarebbe possibile senza una grave crisi in Israele, ma non è impossibile. I coloni in Cisgiordania non sono più numerosi degli europei che stavano in Algeria e che l’hanno lasciata nel 1962. È una questione di volontà politica. Ciò detto, più il tempo passa, più gli israeliani si radicano e più diventa difficile. E con gli attuali rapporti di forza, non si vede come ciò potrebbe realizzarsi.

Lei pensa esista un’alternativa alla creazione di uno Stato palestinese?

Un argomento è quello dello Stato unico, a volte definito bi-nazionale o laico, senza dimenticare il fattore nazionale. Ma per me, questo è ancora più utopico del ritiro dei coloni dai Territori. Questa tesi sostiene che visto che il ritiro dei coloni è impossibile, occorre un unico Stato dove i palestinesi avranno il diritto di voto e dove vi sarà uguaglianza di diritti tra palestinesi e israeliani è ben più difficile da immaginare oggi. Siamo in definitiva in un’impasse. È tragico, ma oggi all’orizzonte non si vede una via d’uscita in questo conflitto.

15 settembre 2018.

Traduzione di Cinzia Nachira per http://rproject.it

Pubblicato da L’Orient-Le Jour

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Questo articolo è stato pubblicato qui

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