Siria, come evitare l’antimperialismo degli idioti
di Gilbert Achcar da http://rproject.it/
Pubblichiamo un testo di Gilbert Achcar apparso sulla rivista americana The Nation che riteniamo sia un utile supporto all’appello “Siria e l’antimperialismo degli idioti” . http://rproject.it/
Ricordiamo che la raccolta delle firme su questo appello è ancora possibile scrivendo a questo indirizzo: [email protected]
Qui potete trovare le adesioni raccolte ad oggi dopo la pubblicazione dell’appello.
La logica secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico” è la ricetta di un vuoto cinismo.
Gli ultimi tre decenni sono stati testimoni di una crescente confusione politica sul significato di “antimperialismo”; una nozione che, in sé, non era stata, in precedenza, oggetto di molti dibattiti.
I motivi principali di questa confusione sono due: la fine vittoriosa della maggior parte delle lotte anticoloniali post II Guerra Mondiale, e il crollo dell’URSS.
Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti e le potenze coloniali occidentali alleate intrapresero in maniera diretta diverse guerre contro movimenti di liberazione nazionale o regimi, unitamente ad interventi militari più limitati e guerre per procura. Nella maggior parte di questi casi, le potenze occidentali hanno affrontato un avversario locale sostenuto da un’ampia base popolare. Stare contro l’intervento imperialista e sostenere coloro contro cui esso si scagliava sembrava un’ovvia scelta per i progressisti: l’unica discussione girava intorno all’opportunità se il sostegno dovesse essere critico o senza riserve.
La principale divisione tra gli antimperialisti durante la Guerra Fredda fu, piuttosto, causata dall’atteggiamento nei confronti dell’URSS, che i partiti comunisti e i loro stretti alleati consideravano la “patria del socialismo”; ciò determinò gran parte delle posizioni politiche allineate a Mosca e al “campo socialista”, descritte come “campismo”.
Ciò fu facilitato dal sostegno di Mosca alla maggior parte delle lotte contro l’imperialismo occidentale nell’ambito della rivalità globale con Washington. Per quanto riguardò l’intervento di Mosca contro le rivolte dei lavoratori e dei popoli nella propria sfera di dominio europea, i campisti si sono schierati con il Cremlino, sminuendo queste rivolte con il pretesto che erano fomentate da Washington.
Coloro che, invece, ritenevano la difesa dei diritti democratici un principio fondamentale della sinistra, hanno sostenuto le lotte contro l’imperialismo occidentale così come le rivolte popolari nei paesi dominati dai sovietici contro il governo dittatoriale locale e contro la stessa egemonia di Mosca. Una terza categoria era formata dai maoisti, che, a partire dagli anni ’60, etichettarono l’URSS come “socialfascista”, descrivendola come peggiore dell’imperialismo statunitense, fino a schierarsi con Washington in alcuni casi, come testimonia la posizione di Pechino in merito al Sud Africa.
Il modello delle guerre occidentali prettamente imperialiste, condotte contro i movimenti a base popolare nel Sud del mondo, iniziò tuttavia a cambiare con la prima guerra di questo tipo condotta dall’URSS dal 1945: la guerra in Afghanistan (1979-1989). Inoltre, l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam nel 1978 e l’attacco della Cina al Vietnam nel 1979, sebbene non furono intrapresi da stati definiti “imperialisti”, generarono un diffuso disorientamento tra le fila della sinistra antimperialista globale.
La successiva grande complicazione fu la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein, nel 1991.
Questo non era un regime popolare, nè semplicemente dittatoriale, ma uno dei più brutali e sanguinari del Medio Oriente, che aveva persino usato armi chimiche nel massacrare a migliaia i curdi tra la popolazione nel suo paese – ed anche con la complicità occidentale, poiché ciò accadde durante la guerra dell’Iraq contro l’Iran. Alcune figure che fino ad allora appartenevano alla sinistra antimperialista, in quella occasione si spostarono a sostegno della guerra guidata dagli Stati Uniti. Ma la stragrande maggioranza degli antimperialisti vi si oppose, anche se il mandato delle Nazioni Unite con cui venne condotta fu approvato perfino da Mosca. Malgrado il fatto che la maggior parte di essi non era nemmeno fan di Saddam Hussein, e che lo denunciavano come un brutale dittatore anche mentre si opponevano alla guerra imperialista guidata dagli Stati Uniti contro il suo paese, piaceva poco la difesa dell’emiro del Kuwait e del suo dominio concessogli dagli inglesi, cioè di un paese popolato soprattutto da una maggioranza di migranti senza diritti.
Ma presto emerse un’ulteriore complicazione. Dopo che le operazioni di guerra a guida USA cessarono nel febbraio 1991, l’amministrazione Bush – avendo deliberatamente risparmiato le forze d’élite di Saddam Hussein per paura di un crollo del regime che avrebbe potuto poi avvantaggiare l’Iran – permise al dittatore di schiacciare sia una rivolta popolare nel sud dell’Iraq che l’insurrezione curda nel montagnoso nord, permettendogli addirittura di usare elicotteri, nel secondo caso. Ciò portò ad una massiccia ondata di rifugiati curdi che attraversarono il confine con la Turchia. Per poi fermare tutto questo e consentire il ritorno dei rifugiati, Washington impose una no-fly zone (NFZ) sul nord dell’Iraq. Non ci fu quasi nessuna campagna antimperialista contro questa NFZ, poiché l’unica alternativa sarebbe stata la continua e spietata repressione dei curdi.
Le guerre della NATO nei Balcani negli anni ’90 posero un dilemma simile. Le forze serbe fedeli al regime di Slobodan Milosevic erano impegnate in azioni omicide contro i musulmani bosniaci e kosovari. Ma altri mezzi per evitare massacri e imporre una soluzione negoziata nell’ex Jugoslavia erano stati deliberatamente trascurati da Washington, che voleva trasformare la NATO da alleanza difensiva ad “organismo di sicurezza” da coinvolgere in guerre interventiste. Il passo successivo verso questa mutazione è poi consistito nell’utilizzo della NATO in Afghanistan, sulla scia degli attacchi dell’11 settembre (2001), rimuovendo così la limitazione alla zona atlantica originariamente deputata all’alleanza. Poi è arrivata l’invasione dell’Iraq nel 2003, l’ultimo intervento guidato dagli Stati Uniti che ha unito tutti gli antimperialisti in termini di opposizione.
Nel frattempo, il “campismo” prodotto dalla Guerra Fredda riemergeva sotto una nuova veste: non più definito dall’allineamento all’URSS, ma dal sostegno diretto o indiretto a qualsiasi regime o forza che fosse oggetto dell’ostilità di Washington.
In altri termini, si è verificato un passaggio: dalla logica secondo cui “il nemico del mio amico (l’URSS) è il mio nemico” a quella secondo cui “il nemico del mio nemico (gli USA) è mio amico” (o qualcuno a cui risparmiare critiche, in ogni caso).
Mentre la prima accezione ha portato a strani partners, la seconda logica è la ricetta per un vuoto cinismo: focalizzata esclusivamente sull’odio per i governi degli Stati Uniti, conduce ad un’opposizione aprioristica a qualsiasi cosa Washington intraprenda nell’arena globale, e alla deriva di un sostegno acritico a regimi assolutamente reazionari e antidemocratici, come il governo imperialista, capitalista e criminale russo (imperialista in ogni definizione del termine), o al regime teocratico iraniano, o a personaggi come Milosevic e Saddam Hussein.
Per illustrare la complessità delle questioni che l’antimperialismo progressista deve affrontare oggi – una complessità insondabile alla semplicistica logica del neocampismo – consideriamo due guerre sorte dalla Primavera araba del 2011.
Quando le rivolte popolari riuscirono a sbarazzarsi dei presidenti di Tunisia ed Egitto, all’inizio del 2011, l’intero arco di autoproclamati antimperialisti esultò all’unisono, poiché entrambi i paesi avevano regimi favorevoli all’Occidente. Ma quando l’onda d’urto rivoluzionaria raggiunse la Libia, come era inevitabile per un paese che condivideva i confini sia con l’Egitto che con la Tunisia, i neocampisti si dimostrarono molto meno entusiasti. Ricordavano solo che il regime supremamente autocratico di Moammar El-Gheddafi era stato dichiarato illegale dagli stati occidentali per decenni, apparentemente immemori del fatto che si fosse spettacolarmente spinto in una cooperazione con gli Stati Uniti e vari stati europei dal 2003.
Fedele alla sua linea, Gheddafi represse sanguinosamente le proteste. Quando gli insorti presero il controllo della seconda città della Libia, Bengasi, Gheddafi – dopo averli descritti come ‘ratti’ e ‘drogati’, e aver giurato pubblicamente di “purificare la Libia centimetro per centimetro, casa per casa, strada per strada, persona per persona, fino a ripulire il paese dallo sporco e dalle impurità ”— preparò un attacco contro la città, schierando l’intero corpo delle sue forze armate. La probabilità di un massacro di proporzioni enormi era molto alta. Dieci giorni dopo la rivolta, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottò all’unanimità una risoluzione che deferiva la Libia alla Corte penale internazionale.
La popolazione di Bengasi implorò il mondo di essere protetta, pur sottolineando che non volevano stivali stranieri sul terreno. La Lega degli Stati arabi sostenne questa richiesta. Di conseguenza, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che autorizzava “l’imposizione di una No Fly Zone” sulla Libia, nonché “tutte le misure necessarie … per proteggere i civili … escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma su qualsiasi parte del territorio libico”. Né Mosca né Pechino posero il veto a questa risoluzione: entrambi si astennero, non volendo assumersi la responsabilità di un massacro preannunciato.
La maggior parte degli antimperialisti occidentali condannò la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in quanto rievocazione di quelle che avevano autorizzato l’assalto all’Iraq nel 1991. Ma trascuravano il fatto che il caso libico aveva, in realtà, più in comune con la NFZ imposta al nord dell’Iraq che con l’aggressione all’Iraq con il pretesto di liberare il Kuwait. La risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite era chiaramente ambigua, aperta a varie interpretazioni in modo da consentire l’interferenza prolungata delle potenze NATO nella guerra civile libica. Tuttavia, in assenza di mezzi alternativi per prevenire l’imminente massacro, la NFZ difficilmente poteva essere contrastata nella sua fase iniziale, per le stesse ragioni che avevano portato Mosca e Pechino ad astenersi.
Ci vollero pochissimi giorni alla NATO per privare Gheddafi di gran parte della sua forza aerea e dei suoi carri armati. Gli insorti avrebbero potuto continuare senza un diretto coinvolgimento straniero, a condizione che fossero state fornite le armi necessarie unicamente per contrastare il rimanente arsenale di Gheddafi. La NATO preferì mantenerli dipendenti dal suo coinvolgimento diretto nella speranza di poterli controllare. Alla fine, i piani della NATO circa lo smantellamento dello stato di Gheddafi furono disattesi, e si venne a creare, così, quella che è l’attuale situazione caotica in Libia.
Il secondo caso, ancora più complesso, è la Siria. Lì, l’amministrazione Obama non ha mai inteso imporre una No Fly Zone. A causa degli inevitabili veti russi e cinesi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ciò avrebbe richiesto una violazione della legalità internazionale, come quella commessa dall’amministrazione George W. Bush nell’invasione dell’Iraq (un’invasione a cui Obama si era opposto). Washington ha mantenuto un basso profilo nella guerra siriana, intensificando il suo coinvolgimento solo dopo che il cosiddetto Stato islamico è cresciuto e ha attraversato il confine con l’Iraq, limitando poi il suo intervento diretto alla lotta contro l’ISIS.
Tuttavia, l’influenza più decisiva di Washington sulla guerra siriana non fu il suo coinvolgimento diretto – che risulta fondamentale solo agli occhi dei neocampisti concentrati unicamente sull’imperialismo occidentale – ma piuttosto il divieto da parte dei suoi alleati regionali di consegnare ai siriani ribelli armi antiaeree, e questo principalmente a causa dell’opposizione di Israele. Il risultato è stato che il regime di Assad ha potuto godere di un monopolio aereo durante il conflitto, e persino ricorrere a un ampio uso di devastanti bombe a barile sganciate dagli elicotteri. Questa situazione, inoltre, ha incoraggiato Mosca a impegnare direttamente la sua forza aerea nel conflitto siriano a partire dal 2015.
Gli antimperialisti si sono drammaticamente divisi, sulla Siria.
Da una parte, i neocampisti – come, negli Stati Uniti, la United National Antiwar Coalition e il US Peace Council – si sono concentrati esclusivamente sulle potenze occidentali nel nome di un peculiare “antimperialismo” a senso unico che, di fatto, sosteneva o ignorava l’assoluto quanto fondamentale [per il regime siriano. Ndt] intervento dell’imperialismo russo (oppure citandolo timidamente, rifiutando di prendere posizione anche contro di esso, come invece accaduto nel caso della Coalizione Stop the War nel Regno Unito. Per non parlare poi dell’intervento delle forze fondamentaliste islamiche sponsorizzate dall’Iran.
Dall’altra, gli antimperialisti democratici progressisti che hanno condannato il regime assassino di Assad e dei suoi sostenitori imperialisti e reazionari stranieri, rimproverando l’indifferenza delle potenze imperialiste occidentali verso il destino del popolo siriano, anche mentre si opponevano al loro diretto intervento nel conflitto, e denunciando il ruolo nefasto delle monarchie del Golfo e della Turchia nel promuovere forze reazionarie tra l’opposizione siriana.
La situazione si è complicata ulteriormente quando un’ascesa dell’ISIS mise in pericolo il movimento nazionalista curdo siriano di sinistra, l’unica forza armata progressista allora attiva sul territorio siriano. Washington ha combattuto l’ISIS attraverso una combinazione di bombardamenti e aperto sostegno alle forze locali, che includevano milizie allineate con l’Iran in Iraq e forze curde di sinistra in Siria. Quando l’ISIS ha minacciato di impossessarsi della città di Kobanî, controllata dalle forze curde, queste sono state salvate dai bombardamenti statunitensi e dal lancio di armi.
Nessun settore antimperialista si è sperticato in modo significativo per condannare questo palese intervento di Washington, per l’ovvia ragione che l’alternativa sarebbe stata lo schiacciamento di una forza legata a un movimento nazionalista di sinistra in Turchia che tutta la sinistra aveva sempre tradizionalmente sostenuto.
Successivamente, Washington ha schierato truppe sul terreno nel nord-est della Siria per sostenere, armare e addestrare le forze democratiche siriane (SDF) guidate dai curdi. L’unica opposizione veemente a questo ruolo degli Stati Uniti è venuta dalla Turchia, membro della NATO, l’oppressore nazionale del più ampio settore del popolo curdo. La maggior parte degli antimperialisti è rimasta in silenzio (l’equivalente dell’astensione), in contrasto con la posizione del 2011 sulla Libia – come se il sostegno alle insurrezioni popolari da parte di Washington potesse essere tollerato solo quando esse sono guidate da sigle di sinistra.
E quando Donald Trump, sotto la pressione del presidente turco, annunciò la sua decisione di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria, diverse figure di spicco della sinistra americana – tra cui Judith Butler, Noam Chomsky, il defunto David Graeber e David Harvey – rilasciarono una dichiarazione chiedendo che gli Stati Uniti “continuassero con il sostegno militare alle SDF” (anche senza specificare l’esclusione di un intervento diretto sul terreno). Anche tra i neocampisti, pochissimi denunciarono pubblicamente questa affermazione.
Da questa breve rassegna delle recenti complicazioni dell’antimperialismo emergono tre principi guida.
Primo e più importante: le posizioni veramente progressiste – a differenza dell’apologia dipinta di rosso riservata ai dittatori – sono determinate in funzione del loro sostegno ai migliori interessi del diritto dei popoli all’autodeterminazione democratica; e non, piuttosto, basate su un’opposizione istintiva a qualsiasi cosa faccia un potere imperialista in qualunque circostanza; gli antimperialisti devono “imparare a pensare”.
Secondo: l’antimperialismo progressista ha come fondamentale premessa la capacità di opporsi a tutti gli stati imperialisti, di non schierarsi con alcuni di loro contro altri. Infine: anche nei casi eccezionali in cui l’intervento di una potenza imperialista avvantaggia un movimento popolare di emancipazione – e anche quando è l’unica opzione disponibile per salvare un tale movimento dalla repressione sanguinosa – gli antimperialisti progressisti devono esprimere la totale sfiducia in qualunque potere imperialista, ed esigere la limitazione del suo coinvolgimento a forme che inficino la sua capacità di imporre il proprio dominio su ciò che pretenderebbe di ‘salvare’.
Qualunque dibattito che si instauri tra gli antimperialisti progressisti che concordano sui principi di cui sopra, è essenzialmente una questione tattica. Con i neocampisti, invece, difficilmente si discute: invettive e calunnie sono il loro solito modus operandi, in linea con la tradizione dei loro predecessori del secolo scorso.
Traduzione di Fiorella Sarti Foto di Cesare Quinto
https://www.thenation.com/article/politics/anti-imperialism-syria-progressive/
Gilbert Achcar è professore presso SOAS, University of London. I suoi numerosi libri includono The Clash of Barbarisms (2002, 2006); Perilous Power: The Middle East and US Foreign Policy, scritto in collaborazione con Noam Chomsky (2007); Gli arabi e l’olocausto: la guerra arabo-israeliana delle narrazioni (2010); The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (2013); e sintomi morbosi: ricaduta nella rivolta araba (2016).
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Joseph Halevi, Macquarie University, Sydney; International University College of Turin.
Enzo Traverso, Storico, Cornell University, USA
Jan Toporowski, SOAS University of London
ITALIA
Riccardo Bellofiore, già docente di economia politica, Università di Bergamo
Giovanna Vertova, economista Università di Bergamo
Riccardo Cristiano, Presidente Ass. Giornalisti amici di padre Dall’Oglio
Sara Lucaroni, giornalista
Cesare Quinto, fotografo
Rosita Di Peri, docente Università di Torino
Gustavo Gozzi, docente Università Bologna
Antonio Moscato, già docente Università del Salento
Alberto Savioli, archeologo e scrittore
Lorenzo Declich, islamologo
Luciano Nuzzo, professore di Sociologia del diritto UFRJ (Universidade Federal do Rio de Janeiro – Brasil)
Giuseppe Cossuto, Storico
Joshua Evangelista, giornalista
Franco Turigliatto, Sinistra Anticapitalista
Valerio Torre, avvocato, Collettivo marxista rivoluzionario “Assalto al cielo”
Dario Brandi, documenterista
Enrico Pulieri MPhil/PhD SOAS University of London
Fabrizio Gigliani, Delegato sindacale USB Pubblico Impiego
Matilde Bei Clementi
Walter Baldo C.
SVIZZERA
Anne Michel, femminista e sindacalista, Svizzera
Agostino Soldini, segretario sindacale, Svizzera
Vincent Bircher, militante sindacale, Svizzera
Paolo Gilardi, antimilitarista e storico, Svizzera
Angelica Lepori, deputata al parlamento Cantonale
Simona Arigoni, deputata al parlamento Cantonale
Matteo Pronzini, deputato al parlamento Cantonale
FRANCIA
Roseline Vachetta, già deputata europea, Nuovo Partito Anticapitalista, NPA, Francia
Foto di ErikaWittlieb da Pixabay
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