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Omicidio Regeni. Diritti civili intesi dagli alleati ingombranti

L’Egitto che Nagib Mahfuz riuscì a far vivere con Il caffè degli intrighi non è differente da quello odierno. È un Egitto dove il potere si poggia su di una solida struttura autoritaria posta al controllo degli organismi polizieschi e da una rete di delazione radicata nelle diverse classi sociali.

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Un Egitto che conta molto sulla distrazione dell’Occidente, sino a quando il regime regola i conti tra egiziani, sorvolando sulle violazioni dei Diritti civili, ma se tra le vittime cominciano a cadere persone come Giulio Regeni, un ricercatore italiano impegnato in un’analisi sulla società egiziana, è difficile continuare ad ignorare il migliaio di scomparsi degli ultimi due anni e i 21/31mila attualmente detenuti senza specifiche imputazioni, oltre al fatto di trovarsi alleato un regime che ha trovato la sua “legittimazione” dopo aver spodestato un governo democraticamente eletto.

Il non dimenticare Giulio Regeni sotto le astruse e ingenue ipotesi di comodo sulla sua morte, significa non dimenticare anche l’assassinio del francese Eric Lang, nel settembre 2013 nel Commissariato di polizia di Qasr el-Nil al Cairo, per il quale verranno processati in questi giorni i presunti colpevoli.

Lo svolgimento del processo per la morte di Eric Lang potrebbe far ben sperare sulla possibilità di far luce sulla morte del ventottenne Giulio Regeni.

Un potere quello egiziano caro all’Occidente che da decenni si regge su di un regime di organi come il Mukhabarat, l'intelligence già molto attiva con Mubarak. e che garantisce un controllo ferreo su ogni deriva islamista. Uno stato di polizia che ha un controllo su tutta la società, anche laica, pronto ad aprire le porte delle prigioni a fumettisti come Islam Gawish, ma che tollera malvolentieri la satira che anima Qahera, l'eroina egiziana con il velo che combatte le discriminazioni, perché si muove in equilibrio tra laicità organica e la tradizione musulmana, rivalutando il ruolo della donna nel panorama islamico.

In questo clima di coercizione e repressione inquieta la dichiarazione del ministro della Sicurezza, Magdy Abd El Ghaffar per il quale il caso del ricercatore italiano viene trattato "come fosse un egiziano", quando essere cittadino in Egitto non offre affatto garanzie civili.

Finire in carcere per gli scrittori, nel regime del generale Al Sisi, è estremamente facile come dimostra il recente arresto di Ahmed Nagi. Arrestato con l’accusa di “oltraggio al pudore”, dopo la pubblicazione del suo libro Istikhdam al Hayat (L’uso della vita), è stato un pretesto per colpire un altro simbolo della rivoluzione di piazza Tahrir e che non depone a favore della “laicità” di Al Sisi contro la visione bigotta di un certo islamismo verso la cultura in Egitto.

Anche la Turchia non nasconde il fastidio che prova verso le critiche che gli possono venir mosse nell’ambito della restrizione delle libertà personali, come dimostrano i numerosi giornalisti ospitati nelle prigioni.

Un alleato turco e il clima che si respira nel paese è stato raccontato nel reportage di PresaDiretta, realizzato da Giulia Bosetti e Andrea Vignali, del 21 febbraio su Rai3, con la guerra civile nelle città curde del Sudest e arrestati di giornalisti d'opposizione, accademici e magistrati, mentre Daesh non è poi così pericoloso per il potere di Erdogan.

Ora i giornalisti sono incarcerati, come accade agli oppositori politici, a differenza degli assassini effettuati, come l’ultimo forse è stato quello del turco-armeno Hrant Dink, sino ad una decina anni fa.

La Democrazia turca è sempre più squilibrata verso un sistema Autoritario, dove i Diritti Umani sono una pura Utopia, Diritti barattati con una discutibile sensazione di sicurezza.

Si può ricondurre l’inizio di questo giro di vite sulle libertà civili alla repressione muscolare che il regime turco ha effettuato per arginare le proteste di Gezi Park del 2013 iniziate per salvaguardare l’omonimo spazio verde di Istanbul dalla speculazione immobiliare che lo minacciava.

Anche nell’odierno Messico democratico è facile sparire senza lasciare traccia, come in una qualsiasi feroce dittatura sudamericana degli anni’70.

Sono 88 gli Stati, secondo le Nazioni Unite, nei quali è pratica quotidiana far scomparire le persone scomode e non sono tutti come Siria e Corea del Nord, ci sono anche degli alleati dell’Occidente o nazioni dai ruoli variabili come la Russia, dove si svolgono delle elezioni democratiche e la Cina, dove la libertà non è per tutti, che sta inventando un capitalismo di stato, senza dimenticare l’Eritrea e l’Afghanistan.

È in questo panorama di alleati ingombranti che la figura del giornalista comincia ad essere una delle professioni sempre più pericolose, al pari di quella dell’oppositore ad un regime, stando al rapporto annuale presentato dal Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj - Committee to Protect Journalists), che nel 2015 conta 69 uccisi in tutto il mondo mentre svolgevano il loro lavoro.

Confrontando il rapporto della Ong Freedom House con quello di Reporter senza frontiere (RSF - Reporters sans frontières), si evince che non sono solo le dittature a non concedere le libertà civili, ma anche quei paesi, anche all’interno dell’Europa, che nominalmente appaiono democratici.

 

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