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Leopardi antiromantico

Nel 1816 la Biblioteca italiana pubblicava un discorso di Madame de Staël "Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni".

Benché inviato ad una rivista di gusto classicistico, lo scritto della Staël era sostanzialmente una cauta presa di posizione a favore della poetica romantica, perché esortava gli italiani a tradurre piuttosto che dai classici, dai moderni poeti inglesi e tedeschi, al fine di "mostrare qualche novità ai loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia" e aggiungeva che le favole mitologiche erano da un pezzo antiquate.

Nel luglio dello stesso anno (1816) il Leopardi scriveva in proposito una lunga lettera nella quale premetteva che la necessità di aggiornarsi presso gli stranieri era indispensabile agli scienziati perché le scienze progrediscono ogni giorno, mentre non era affatto indispensabile per i letterati, poiché la letteratura non può fare progressi.

Inoltre il giovane Leopardi sostiene, contro la tesi della Stael, la necessità per gli italiani di studiare a lungo e in modo maturo gli autori greci, latini e italiani, i quali "han bellezze da bastare ad alimentarci per lo spazio di tre vite se ne avessimo" e conclude ringraziando il Cielo per averlo fatto italiano, non per altro che "per la maniera della italiana letteratura che è di tutte le letterature del mondo la più affine alla greca e latina".

L’argomento era troppo pieno d’interesse perché il Leopardi dovesse lasciarlo cadere. E vi tornò sopra nel 1818 in un Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ritrovato solo nel 1906 tra gli scritti vari inediti.

Che cosa è questo Discorso di un Leopardi ventenne e antiromantico? Non si pensi che sia la reazione sterile di un ritardatario e tanto meno di uno spirito accademico. La verità è che al Leopardi pareva che nelle istanze dei romantici, come sempre accade ai rivoluzionari più cauti, ci fossero non poche esagerazioni e contraddizioni che andavano corrette e messe in luce;

d’altra parte, più che a confutare teorie che gli parevano poco persuasive nella loro perentoria esclusività, il poeta mirava con quel lungo scritto a placare le sue ansie di contemporaneo, a conciliare in sé il dissidio tra l’esigenza di un immaginare letterario, tra l’aspirazione alla forma classicamente definita e quella passionalità romantica che gli ferveva vigorosa nell’animo.

Così coglie la "incredibile contraddizione" dei romantici, i quali ponevano sia l’esigenza del vero, che la facoltà immaginativa dell'uomo. Dunque la poesia deve ingannare. Ma acutamente il Leopardi distingue due forme d’inganno: quella intellettuale e quella fantastica.

L’una è quella del filosofo "che vi persuada del falso", l’altra è quella delle arti belle e della poesia. Di qui la legittimità della finzione poetica, purché il poeta, "potendo illudere come vuole, scelga dentro i confini del verisimile quelle migliori illusioni che gli pare"

E’ naturale perciò che il Leopardi esalti la bellezza degli antichi miti; egli sentiva tutta la bellezza ideale della poesia classica, i cui miti simboleggiavano uno stato di serena innocenza della umanità. Un modo sensibile con il quale la fantasia dell’uomo riusciva a ravvivare continuamente il fascino della natura.

Le pagine di questo Discorso contengono già quegli elementi che costituiranno il nucleo fondamentale della bella canzone Alla Primavera composta nel 1822 e ispirata alla dolente e insieme affascinante nostalgia di una perduta innocenza.

Vivi tu, vivi, o santa

Natura? Vivi e il dissueto orecchio

Della materna voce il suono accoglie?

Forse scrivendo questi versi, il poeta non sapeva di sfiorare uno dei motivi più ricchi e più fecondi della psicologia romantica, cioè quello della natura umanizzata.

Mettendo a profitto la sua vasta erudizione, il Leopardi indugia in una minuta esemplificazione dei classici, al fine di dimostrare come, da Omero a Dante, l’antica poesia fosse ricca di elementi patetici.

Questa è certo la parte più notevole, del Discorso, giacché qui il Leopardi, nel tentativo di difendere la poesia classica e di rivendicarne i profondi valori espressivi e sentimentali, riesce a mettere in evidenza, in tutta la storia della umana poesia, la persistenza di un romanticismo psicologico che risale proprio ad Omero (di cui cita la famosa similitudine che conclude il libro VIII dell’Iliade:

Siccome quando in ciel tersa è la Luna,

e tremole e vezzose a lei dintorno

sfavillano le stelle, allor che l’aria

è senza vento, ed allo sguardo tutte

si scuoprono le torri e le foreste

e le cime dei monti; immenso e puro

l’etra si spande, gli astri tutto il volto

rivelano ridenti, e in cor ne gode

l’attonito pastor; tali………

E certamente egli non poteva tralasciare di mettere a confronto "la delicatezza, la tenerezza e la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri", tenendo l’occhio a quegli eccessi di truculenza e di mostruosità in cui erano caduti specialmente i romantici tedeschi, sui quali pesava in qualche modo l’eredità dello Sturm und Drang.

Egli sapeva bene quali fossero i pericoli della immediatezza, della imitazione materiale dal vero: "l’imitare semplicemente al vivo non è pur cosa facile ma triviale: imita ciascuno di noi tutto giorno, imita il volgo principalmente, imitano le bertucce, imitava quel buffone di Fedro quanto si può dire al naturale il grugnito del porco"

Perciò la sua difesa della classicità era la difesa di quella nobiltà del sentire, di quella compostezza e castigatezza di forme la cui coincidenza egli considerava essenziale alla vera e grande poesia. Era anche la difesa della nostra grande tradizione letteraria contro la xenomania, diventata anche oggi una nota peculiare della nostra civiltà.

"Vedo gran parte degl’italiani vergognarsi di essere compatrioti di Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e di Canova". Non fraintendiamo, naturalmente, queste parole come sfogo di orgoglio nazionalistico.

Esse affermano, invece, insieme con l’appassionata esortazione ai giovani italiani che conclude il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, la necessaria continuità della tradizione artistica; perché l’arte deve rinnovarsi continuamente, per rispondere agli atteggiamenti sempre nuovi dello spirito, ma non può rinnovarsi veramente rinnegando la tradizione.

E in fondo il Leopardi, rilevando la presenza di motivi o spunti romantici in tutta la poesia classica, aveva voluto suggerire la possibilità di un innesto tra l’antico e il nuovo agli altri e soprattutto a se stesso, giacché nella sua poesia mirava a conciliare e contemperare il pathos romantico con l’armonica purezza della forma classica.

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