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La scomparsa di Mattei unisce la morte di De Mauro a quella Pasolini

Mentre su richiesta dell'ex Sindaco di Roma Walter Veltroni all'ex Ministro di Grazia e Giustizia Angelino Alfano e di questi alla procura di Roma è stata recentemente riaperta - a 37 anni dalla morte - l'inchiesta su Pier Paolo Pasolini sotto la direzione di Giuseppe Pignatone e del PM Francesco Minisci, la Corte d'Assisi di Palermo, in 2199 pagine depositate il 9 agosto ha ricostruito così la fine del giornalista Mauro De Mauro scomparso il 16 settembre 1970:
"La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni".
La Corte, presieduta da Giancarlo Trizzino, pur assolvendo l'unico imputato, Totò Riina, non esclude affatto responsabilità di elementi appartenenti a Cosa Nostra e fa inoltre riferimento esplicito alla essenzialità del materiale scomparso. Tasselli mancanti, documenti e registrazioni che i giudici ritengono fondamentali per la soluzione del mistero ed in particolare: la registrazione dell’ultimo discorso che l’ex presidente dell’ENI fece prima di morire, a Gagliano, in provincia di Enna, la registrazione dell’intervista che De Mauro fece a Graziano Verzotto, ex dirigente ENI secondo i giudici al centro del complotto internazionale ordito per eliminare Mattei, e sette pagine di appunti scritti dal cronista de L’Ora per il regista Francesco Rosi.
 
Sembra infatti che De Mauro fosse rimasto impressionato proprio dalla registrazione dell'ultimo discorso di Mattei in cui, oltre agli oratori, si udivano distinte anche le voci di coloro che si trovavano nei pressi del microfono. Per la fine di De Mauro la Corte d'Assise di Palermo opera dunque uno "spostamento" se così si può dire, la fine del giornalista era infatti sempre stata associata in precedenza - nella versione più plausibile - all'operazione "Tora, Tora, Tora", ossia al golpe del principe Junio Valerio Borghese ed agli ambienti eversivi ed economico mafiosi di estrema destra.
 
La verità accertata dalla Corte, pur senza riferimenti che comunque non sarebbero possibili, associa, costituendolo come precedente rilevante, la fine di De Mauro a quella di un altro giornalista, ma soprattutto poeta, scrittore e regista tra i più grandi d'Italia: Pier Paolo Pasolini, la cui fine - cinque anni dopo, il 2 novembre 1975 - è anch'essa intrecciata alla ricerca della verità sulla morte di Enrico Mattei.
 
L'ultimo scritto di Pasolini è infatti "Petrolio", la "cosa sporca" di cui si occupava Mattei.
Invero in "Petrolio", come già nella vicenda personale ed in quella giornalistica di De Mauro, appare evidente come le due realtà, quella eversivo economico mafiosa, vicina e sconfinante oltre che complice del golpe, e quella più vasta rinviante a scenari internazionali, agli interessi francesi e della Elf, ma anche a quelli americani delle sette sorelle e di Baldwin, nemico acerrimo di Mattei, finiscano con l'intrecciarsi inestricabilmente, connotate nel particolare da uomini dalla doppia e tripla personalità e vita, e dalla loro appartenenza simultanea a più realtà.
 
Una molteplicità che investe - come bene ci illumina proprio Pasolini in "Petrolio" - il singolo sin nel più profondo della sua identità che si intreccia con la sua esteriorità ed apparenza, se ne dilania, ne confligge, persino per quanto concerne la propria sessualità. L'ostentata eterosessualità per il potere, che entra in conflitto con la reale omosessualità. Ma è proprio questa, a dispetto degli anticomplottisti, a riportarci al punto di partenza: "Comunista" e "iarrusu" (dicitura in dialetto del catanese), gli ultimi insulti diretti a Pasolini durante il pestaggio e che rinviano a concezioni omofobe e di eversione di destra.
Pasolini a Catania andava ed aveva casa, ed aveva conosciuto i fascisti marchettari. Ma è proprio a Catania, negli ambienti mafioso eversivi di destra, che è stato concepito il sabotaggio dell'aereo di Mattei, caduto al ritorno da Catania, nei pressi di Pavia il 27 ottobre 1962. E siamo di nuovo lì.
Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.2) 29 agosto 2012 10:56

    ALLA LUCE DI QUANTO E’ VENUTO FUORI SI SPIEGA QUELLO CHE ORIANA FALLACI NON SI SPIEGAVA QUESTO ACCANIMENTO CONTRO DI LEI !
    VOLEVANO SCOPRIRE CHE COSA IN REALTA’ SAPEVA PER DECIDERE SE DOVEVANO ELIMINARE PURE LEI !!!!!

    La polizia, spiega la grande scrittrice, «prese a perseguitarmi. Mi mandava, soprattutto all’ufficio dell’Europeo di via Boncompagni, vicino a via Veneto, degli strani individui che, si capiva, avevano il compito di trarmi in inganno, di tendermi trappole per farmi dire che avevo mentito e scritto cose non vere». Niente a paragone della magistratura: «Se lei mi chiede qual è l’immagine che io ho del magistrato, non è quella del signore con la barba bianca, gli occhiali e la toga nera dignitosamente assiso in tribunale. E’ quella del magistrato che per primo mi interrogò dopo gli articoli dell’Europeo, che mi convocò in procura e io andai da bravo cittadino - ho l’ingenuità dei bravi cittadini - non pensai di portarmi l’avvocato, andai, dissi, sentiamo, forse è interessato a quello che noi dell’Europeo abbiamo scritto. E trovai questo barbuto, maleducatissimo, che si dava un mucchio di arie, seduto dietro la scrivania squallida di una stanzuccia squallida, che mi trattava come una delinquente, sgarbato, aggressivo». Voleva sapere i nomi dei testimoni ai quali Oriana Fallaci si riferiva nei reportage. Lei si appellò al segreto professionale, allo statuto dei giornalisti, alla norma deontologica che impone di tutelare le fonti, specialmente se rivelarne l’identità può metterle in pericolo. Era certamente quello il caso, e la Fallaci lo ripeté al processo, sia in primo che in secondo grado. Ma non le evitò la condanna e nemmeno le procurò la solidarietà, dovuta e sacrosanta, dell’Associazione della stampa. Non si tratta soltanto dell’ingiustizia: «Io so cosa significa essere condannati ingiustamente: è una delle cose più ributtanti che esistano». Si tratta anche di una questione di dignità. La tracotanza del pubblico ministero, l’aria di sufficienza di giudici maldisposti, l’alterigia e la villania degli avvocati a lei contrari. Le provò su di sé e «dopo quella duplice esperienza, davanti all’ingiustizia della giustizia non mi sono più stupita: il mio battesimo l’ho fatto in seguito alla morte di Pasolini». Paradossalmente, ciò che più le è rimasto nella memoria di quelle udienze è l’immagine catastrofica e offensiva di un cancelliere donna: «Una ragazzaccia volgarissima, con questi capelloni tutti scarmigliati e con una maglietta, invece della toga - come io credevo che dovesse avere un cancelliere - una maglietta senza maniche, una t-shirt, con un grande topolino disegnato sul davanti. Vedere questo topolino seduto su uno scranno, a giudicare un cittadino trattato come fosse alla gogna, lo trovai mostruoso. Mi inorridì». 
    Questa sciatteria insieme con le prevaricazioni e i vilipendi subiti la spingono oggi a riparlare di Pasolini: «Questa faccenda mi interessa soltanto nella misura in cui ha aperto la strada della mia disistima per il giornalismo, la polizia, la legge. Soprattutto della legge, soprattutto dei magistrati, del sistema giudiziario e di chi lo amministra». La pena è stata amnistiata ma ad Oriana Fallaci importa poco. Ritiene che lo Stato le dovrebbe delle scuse, la rifusione dei danni morali e materiali. E in fondo le interessa relativamente riporsi la solita domanda: perché? Perché ci fu tanto accanimento contro di lei, e soltanto contro di lei, non contro altri dell’Europeo? E perché non si spesero altrettante energie per dimostrare che Pelosi non era un assassino solitario? Se l’è chiesto per un po’. Poi «mi sono guardata bene dal continuare a rimuginare sulle loro miserie morali e mentali. Ma è una domanda che io ora pongo a voi: perché gli dava tanto fastidio che l’Europeo avesse detto questa verità? Perché l’hanno rifiutata? Perché per rifiutarla se la sono presa con la Fallaci e basta? Sono domande senza risposta, per me sono come il dogma della verginità della Madonna». Ci si potrebbe rituffare nelle teorie dei complotti, nei grovigli politici, e in fondo questo era il sospetto di Tommaso Giglio, direttore dell’Europeo in quegli anni. Si potrebbe ragionare sul fatto che anche adesso sono in pochi a trovare la voce, e comunque è una voce flebile, per dire che pure quella volta la ragione era di Oriana Fallaci. Si potrebbero sostenere tante tesi, ma senza troppi appigli. Forse è sensato e sufficiente tornare all’inizio di questo articolo, ripetere che nel 1975 Oriana Fallaci era già Oriana Fallaci. Già quella del Vietnam, quella delle interviste ai potenti messi spalle al muro. La Oriana Fallaci detestata perché scriveva quello che nessuno sopportava leggere: in che direzione stava girando il mondo. O, per dirlo con parole sue: «Già a quel tempo e da parecchio tempo ormai ero il bambino di quella fiaba di Grimm, il bambino che dice: “Il re è nudo”».

    * * *

  • Di (---.---.---.2) 29 agosto 2012 17:24


    Elda De Mauro, la moglie del giornalista, ha raccontato alla Provincia pavese: «Dissi al generale Dalla Chiesa quali erano i nostri sospetti. Mi rispose: “Se è così è un delitto di Stato. E io contro lo Stato non ci vado”». <?xml:namespace prefix o ns "urn:schemas-microsoft-com:office:office" /><o:p></o:p></FONT></FONT></SPAN></P>
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