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La difficile risoluzione della questione Palestina

In un recente articolo su La Stampa, Lucia Annunziata si è chiesta, come cadendo dalle nuvole, “se i palestinesi si armano, tutti gridano che la violenza è un ostacolo alla pace. Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative unilaterali sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole, come in Miracolo a Milano”.

Curiosamente tra opzioni militari e forzature diplomatiche l'unica ipotesi sensata, trattare con la controparte israeliana, non rientra nel novero delle possibilità prese in considerazione.

Che questa sia la via più difficile, ampiamente ostacolata dall'una e dall'altra parte, sia dalla destra attualmente al governo di Israele sia dalle frange radicali dell'opposizione palestinese, è fuori discussione, ma solo un'ideologia stranamente miope (o un po' strabica) può escludere a priori che questa sia, come è, l'unica strada ragionevolmente percorribile perché un conflitto ormai quasi secolare possa arrivare a conclusione.

Né vale l'obiezione -facilmente immaginabile- che gli israeliani si oppongono da sempre e comunque alla trattativa, mentre i palestinesi hanno offerto, da sempre e comunque, opportunità di pacificazione. La storia non è andata esattamente così (basta ricordare i quattro rifiuti storici palestinesi alla ripartizione del territorio prima e dopo la seconda guerra mondiale) e la storia si sa, può essere interpretata, ma non distorta per farsela tornare banalmente a proprio uso e consumo. Perché così non funziona.

"Oggi la questione – dice la giornalista – è che la manovra diplomatica di Abu Mazen è intelligente e altrettanto intelligente dovrebbe essere la risposta israeliana e americana".

Parole ragionevoli che però evitano accuratamente i punti spinosi, perché nemmeno si pongono le domande cruciali: il nuovo stato di Palestina, qualora fosse riconosciuto, che confini avrà? Quale sarà la sua capitale se Gerusalemme è da quarant’anni annessa a Israele? Che ne sarà della questione del diritto al ritorno dei profughi del ’48? Che ruolo avrà, nel nuovo stato, una forza tutt’altro che marginale come Hamas, che di Israele vorrebbe fare solo un brutto ricordo (cioè polpette)? Quale sarà il destino delle colonie ebraiche, piccole e grandi, sorte nella West Bank?

Sono tutte questioni che possono ottenere risposte di parte, chiuse ad ogni concessione all’avversario, e allora non si va in nessuna direzione se non verso nuovi spargimenti di sangue.

Oppure risposte dolorose per entrambi, da cercare caparbiamente e da trovare solo alla fine di un lungo, tormentoso, difficilissimo capitolo di trattative che la comunità internazionale (USA e Occidente in testa, ma anche Iran e Siria, Russia e Cina) dovrebbe favorire anziché usare cinicamente per la sua continua partita a scacchi globale, insidiosa quanto mortale. 

Potranno i palestinesi (leggi Hamas) rinunciare al diritto al ritorno dei profughi? E saranno disposti a riconoscere Israele come stato? E si decideranno a sopportare la definizione di “ebraico” che molti nella comunità internazionale continuano a considerare “razzista” sorvolando sul fatto che molti stati si nominano “arabi” o “islamici” (cioè parimenti definiti in senso etnico o religioso) senza che nessuno abbia niente da ridire? Potranno gli israeliani rinunciare a Gerusalemme Est, sobborgo arabo della loro capitale, perché possa diventare anche la capitale dello stato di Palestina? O accettare di ridisegnare i confini –a partire dalla linea verde di cessate il fuoco del ’48– integrando le colonie più consistenti all’interno dello stato ebraico (ma abbandonando le altre) e accettando di cedere porzioni di territorio israeliano abitate da una maggioranza araba al nuovo stato palestinese? E siamo sicuri che gli arabo-israeliani siano poi così contenti di diventare cittadini palestinesi?

Queste sono le questioni sul tappeto. Si può sposare il punto di vista degli uni oppure degli altri, ma l’unica chance è che qualcuno, come fu fatto a Ginevra nel 2003, si metta a sedere e provi a ragionare di nuovo, con calma. L’alternativa, banalmente, pare che non ci sia.

Il 31 ottobre la Palestina è entrata a far parte dei membri dell’Unesco. Con molti applausi ed una legittima soddisfazione. Con 107 voti favorevoli su 194.

Fra poco la partita si sposterà all’Assemblea Generale dell’ONU dove servono i due terzi di voti favorevoli, cioè 130. Se si ripetesse il voto dell’Unesco (a parte la questione del veto statunitense al Consiglio di Sicurezza che ne fa comunque una causa simbolica, non concretizzabile), la Palestina non sarebbe accettata nemmeno simbolicamente. Lo smacco per Abu Mazen sarebbe gravissimo e aprirebbe le porte a tutte le forze che alla "forzatura diplomatica" non hanno mai creduto, preferendo la "forzatura militare".

E intanto ai proclami di distruzione che arrivano da Teheran (da anni), adesso si è risposto accendendo i motori dei jet. Obama è inferocito per la situazione in cui è stato messo dalla forzatura diplomatica di Abu Mazen, l'Iran è stato accusato di uno strano complotto su territorio americano, la Siria ribolle, una bizzarra nuova Flotilla è partita alla volta di Gaza (ma nessuno gli ha detto che il valico di Rafah è aperto?), i turchi sono imbestialiti e i curdi (che ci sia lo zampino di qualcuno?) sono di nuovo all'offensiva... 

Insomma, i segnali sembrano infausti. E anche questa non è una novità.

Commenti all'articolo

  • Di Francesco Sellari (---.---.---.130) 4 novembre 2011 12:03
    Francesco Sellari

    Sulla questione del valico di Rafah e del blocco navale, riporto una faq dal sito della nave Tahrir

    Will the Freedom Flotilla II continue if Egypt opens the Rafah border?
    A: Yes, we will still continue with our plans. The maritime blockade by Israel remains a major obstacle toward achieving normal life in Gaza. The Canadian Boat to Gaza and the Freedom Flotilla movement will continue our work until the port of Gaza is opened to ensure free circulation of goods and people. Gaza is the only port on the Mediterranean which is closed to shipping and the only coastal area in the world which cannot access its own territorial waters. Until the Palestinians of Gaza can travel freely and trade with the world, we will continue to challenge this illegal military blockade.

  • Di (---.---.---.38) 4 novembre 2011 12:22

    Grazie, molto interessante.

    Ricorderà comunque che il rapporto Palmer di qualche mese fa definì legittimo il blocco navale israeliano secondo il diritto internazionale (par. 82, pag. 45); non sarebbe quindi "illegale" come riportato dal sito segnalato.

    Inoltre affermava che il porto di Gaza fosse di dimensioni tali da poter accogliere solo piccoli battelli da pesca (par. 78 p. 43), escludendo che fosse in grado di accogliere e far sbarcare grosse importazioni di derrate. Ed escludendo perciò che il blocco avesse di per sé un impatto umanitario significativo.

    Alla luce di queste affermazioni (che non sono mie, ma del Palmer Committee Final Report) non mi sembra che l’azione della terza Flotilla sia umanitaria, ma direi solo una provocazione politica (legittima se si vuole, ma pur sempre provocazione).

  • Di Francesco Sellari (---.---.---.130) 4 novembre 2011 14:21
    Francesco Sellari

    al di là del rapporto Palmer (da più parti contestato) c’è da notare non solo che il blocco delle navi dirette verso Gaza va avanti da molto prima della formale istituzione, ma anche che si tratta di un caso praticamente unico nel diritto internazionale, visto che è una misura prevista in caso di guerra tra due entità riconosciute, mentre Israele non riconosce Hamas, non ci sono praticamente precedenti

    al di là di ciò, concordo sul fatto che sia una provocazone politica, per me legittima e utile a parlare della condizione della popolazione a Gaza

  • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.38) 5 novembre 2011 00:21
    Fabio Della Pergola

    Ha ragione; il rapporto Palmer è stato contestato sia da Israele che dalla Turchia e dalle altre organizzazioni interessate. Resta il fatto che è, per quanto mi risulta, l’unica voce degli organismi internazionali ufficiali in merito alla vicenda della Mavi Marmara. Almeno per ora. Poi vedremo come si esprimerà la Corte Penale Internazionale.

    Non so se questa vicenda sia unica nella storia, ma il diritto internazionale, per quanto ne so, non fa distinzioni tra nazioni in conflitto ufficialmente dichiarato ed “entità belligeranti”. Dove per “entità” il rapporto Palmer considera anche il governo di Hamas, affermando “The Israeli report to the Panel makes it clear that the naval blockade as a measure of the use of force was adopted for the purpose of defending its territory and population, and the Panel accepts that was the case”. 

    Insomma il fatto che Israele non riconosca Hamas (né che Hamas riconosca Israele peraltro) non pare significativo dal punto di vista giuridico in merito al blocco navale.

    Non ricordo invece se effettivamente l’attività di fermare naviglio sia cominciata prima dell’inizio ufficiale del blocco nel 2009 o solo dopo. La cosa non è irrilevante perché in mancanza di un blocco navale ufficiale si tratterebbe effettivamente di "pirateria", mentre chi la chiama così adesso fa polemica politica, ma è fuori dal seminato giuridico.

    Il fatto che si sia d’accordo che la forzatura del blocco da parte della terza Flotilla sia una provocazione è già qualcosa. Provocare è legittimo, forzare il blocco però non lo è. E il rischio alla fine è che succeda qualcosa. Dopodiché saremmo tutti di nuovo a battibeccare sui cattivi israeliani e sulle inutili provocazioni dei “pacifisti”. Non a parlare della popolazione di Gaza, che nel frattempo potrebbe ricostruire società, cultura ed economia contando sulle nuove aperture egiziane. Sarebbe una politica migliore che non continuare a provocare Israele (che non mi pare porti tanto bene).

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