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Il tennis metafisico di D.F.Wallace

E’ appena uscito in libreria un testo di David Foster Wallace che si aggiunge ai numerosi reportage scritti per riviste o giornali americani, nel quale la sua celebre capacità di indagare la realtà - in quest’ultimo caso, quella del tennis agonistico - con un’attenzione maniacale e, a tratti, geniale spirito intuitivo non si smentisce affatto. Un altro capitolo di quella "saga" molto particolare che è la letteratura postmoderna americana.

L’opera di David Foster Wallace non è fatta soltanto di racconti e di romanzi, come dimostra questo libro appena uscito, Roger Federer come esperienza religiosa (edizioni Casagrande). Si tratta di un breve reportage dai campi da tennis di Wimbledon, un luogo non poi così inconsueto per un ex giocatore di tennis come Foster Wallace. A rendere speciale questo testo e diversi altri del medesimo genere, usciti nel corso degli ultimi dieci anni, non è tanto il tema trattato - che si tratti di sport, televisione, cinema o matematica - quanto uno stile di scrittura. Foster Wallace, sulla scia di altri autori come Thomas Pynchon e John Barth, ha ideato un genere di reportage che non si riduce mai al lavoro giornalistico puro e semplice, neppure ad un sontuoso gergo letterario che abbellisce l’informazione, come si usava fare ai tempi di Joyce o di Virginia Woolf. Piuttosto, s’intravede tra le righe un tentativo di critica sociale, di sociologia applicata, non senza una buona dose di ironia e di umorismo. Non si tratta mai di discorsi sulla fine dei tempi, secondo una tradizione che, forse, comincia a stancare. Lo sguardo di Foster Wallace è collocato, invece, all’interno del mondo che ci descrive, spesso partecipe se non compiaciuto: “Quasi tutti gli appassionati di tennis che seguono il circuito maschile in televisione, da qualche anno a questa parte hanno avuto modo di sperimentare quelli che si potrebbero definire Momenti Federer. Sono gli attimi in cui, mentre guardi il giovane svizzero in azione, ti cade la mascella, strabuzzi gli occhi ed emetti suoni che fanno accorrere la tua consorte dalla stanza accanto per controllare che tutto sia a posto”.

Il fatto che Roger Federer sia un famoso tennista conta relativamente poco considerato il modo in cui Foster Wallace ne ricostruisce il personaggio - il suo modo di vestire, la semplicità di comportamento rispetto alle complesse strategie in campo, i piccoli tic durante le partite -, ne fa emergere una dimensione che non è tanto spettacolare quanto umana. E’ la stessa negligenza ironica che lo scrittore dimostra di avere di fronte a un regista come David Lynch o a personaggi tratti dal mondo televisivo (in Tennis, tv, trigonometria, tornado – uscito nel ’99 per Minimum Fax).

La sensazione che si riceve, in genere, da un reportage scritto dall’autore di Infinite Jest è quella di un occhio instancabile che passa e ripassa sulla superficie delle cose, degli eventi, fino a quando non ha trovato la forma giusta con cui dirci ciò che va detto. Uno sguardo clinico, a volte, ma anche intensamente vissuto. Ad un certo punto del suo scritto, Foster Wallace si sofferma, guarda caso, sulla bellezza: “La bellezza umana di cui stiamo parlando è un tipo particolare di bellezza; potremmo definirla bellezza cinetica. L’attrazione e il fascino che esercita sono universali. Non ha niente a che vedere con il sesso e le norme culturali. Semmai, sembra essere strettamente legata alla possibilità per un essere umano di riconciliarsi con il fatto di avere un corpo. Ovvio, negli sport maschili nessuno parla mai della bellezza, della grazia o del corpo. Gli uomini possono professare il loro amore per uno sport, ma questo amore deve sempre essere espresso e rappresentato nella simbologia della guerra: eliminazione e avanzamento, gerarchie di rango e posizione, statistiche maniacali, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalistico, uniformi, frastuono collettivo, bandiere, petti percossi, facce dipinte, ecc. Per ragioni che non sono totalmente chiare, molti di noi trovano i codici della guerra più sicuri di quelli dell’amore”.

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