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Marshall McLuhan, il profeta incompreso dei nuovi media

Quest'anno si festeggia il centenario della nascita di Marshall McLuhan, il celebre teorico canadese che ha interpretato l'universo dei media fin dai primi anni Cinquanta e che, negli Sessanta, diventò un'icona della Nuova America. A torto o a ragione, dato che in realtà la sua opera di studioso e ricercatore viene meno letta di quanto non sia citata. Ma che cosa ha veramente detto McLuhan?

Ricordare la figura di Marshall McLuhan significa accostarsi a una delle menti più fervide e curiose del XIX° secolo. La passione intellettuale che McLuhan metteva nel suo lavoro di studioso e divulgatore non era quella dell'entusiasta ingenuo, del fanatico delle nuove tecnologie. Le accuse che gli sono state fatte in proposito, ormai lo sappiamo, erano più che altro il frutto dell'invidia o dell'incomprensione. Per molto tempo l'immagine di McLuhan è rimasta quella del "guru", amato dai mass media quanto incompreso nelle sue convinzioni di fondo, come ricorda anche Douglas Coupland nella sua recente biografia (Isbn Edizioni, 2011): "L'uomo nel suo ufficio fresco e silenzioso, che permette a un'ape di uscire dalla finestra, un tempo era una superstar. In un certo momento a metà degli anni Sessanta aveva smesso di essere semplicemente un accademico noioso di Toronto. Era diventato un brand a diffusione mondiale, famoso e sintetico e frainteso tanto quanto il suo collega Andy Warhol, artista e creatura dei media degli anni Sessanta" (sul sito Finzioni Occidentali si possono leggere altre citazioni da ques'opera appena tradotta in Italia). Per fortuna, quest'immagine narcotica è passata alla storia e, oggi, ci rimangono i suoi libri e le sue idee.
Come ci raccontano coloro che l'hanno conosciuto o che hanno scritto sulla sua opera, McLuhan non amava di per sè la tecnologia ma desiderava comprenderne le caratteristiche antropologiche (non soltanto il "come funziona", ma anche il "perché funziona") quanto estetiche.
Elena Lamberti nella sua introduzione al pensiero di McLuhan (Mondadori, 2000), ricorda come la figura del professore di letteratura inglese dedito a incursioni audaci nella radio, la televisione e i computer non avesse mai smesso di sconcertare, in primo luogo, proprio gli intellettuali e i ricercatori. Fraintenderlo era facile, comprenderlo molto meno. Per almeno due motivi: lo stile aforistico e ricco di giochi di parole (l'influenza di Joyce e del modernismo letterario si fa sentire), e per il fatto che il suo modo di argomentare, intuitivo e poco disposto verso il linguaggio accademico, si appoggiava volentieri sia alla letteratura "bassa" che alla cultura "alta", sia al saggio accademico che ai fumetti e alla pubblicità, sia al mondo dei libri che a quello delle macchine, superando così barriere e snobismi che erano, negli anni Cinquanta, all'ordine del giorno. Si può dire che McLuhan, con i suoi saggi futuristici e lo spirito dissacratorio che li caratterizza, ha inventato un nuovo modo di guardare e di pensare alla società moderna e alla sua influenza sul comportamento umano.

L'approccio dello studioso rimane, comunque, quello di chi smonta un giocattolo per capire come funziona e, magari, liberarsene. Gli esordi di McLuhan chiariscono il punto: The mechanical pride (La sposa meccanica, 1951) è un'opera che "viviseziona l'opinione pubblica" scrive Lamberti "amplificandone singoli aspetti per riportare alla luce lo sfondo mediatico e l'invisibile rete di meccanismi di manipolazione del pensiero" (op. cit., p.26). Il principale scopo dell'autore è quello di rendere la complessità sociale un oggetto di riflessione e di fare uscire il lettore dal "sonnambulismo" da cui molta fantascienza ha tratto la sua gloria, a cominciare da George Orwell (1984) e Aldous Huxley fino ai loro cloni cinematografici, Matrix o Videodrome. La perversione non è nel futuro, sembra dirci McLuhan, ma nel modo di vivere il presente, nella vita quotidiana. Non rimane che affrontarla, dunque. Forse non siamo così lontani dall'attivismo digitale che vede in McLuhan un profeta, come ama ripetere, ancora oggi, il suo allievo più conosciuto, Derrick de Kerchove.

Ma con quali mezzi possiamo comprendere il mondo tecnologico in cui siamo immersi se cambia in continuazione? Le idee di McLuhan in proposito sono molte, collocate in un tracciato "evolutivo" ben preciso che troviamo delineato nel celebre La Galassia Gutenberg (1962). Si trattava di mettere in evidenza il rapporto dell'uomo con il suo ambiente, senza trascurare gli aspetti più semplici e immediati, ovvero la tendenza che abbiamo di costruire artefatti che siano, scrive McLuhan, delle estensioni di noi stessi: "la parola estende il pensiero, la ruota estende il piede, l'abito estende la pelle e così via" (op. cit., p.60). Ma l'aspetto interessante è che "ogni estensione tecnologica dell'uomo ha una ricaduta sull'ambiente in cui l'uomo vive e un ritorno sullo stesso uomo, dato che ogni mezzo estende una parte del corpo o una funzione, ne inibisce, addormenta, "ipnotizza" altre" (p.61).

L'uso delle tecnologie non è indolore, ciò che permettono lo rendono possibile a patto che qualcosa vada perduto. Risultato: diventiamo dei "mutanti" tanto quanto la tecnologia? Non esattamente. Secondo McLuhan, ciò che avviene è, semmai, una reazione protettiva rispetto all'innovazione che avanza, e che McLuhan, con il linguaggio forbito e visivo che lo caratterizza, chiamava "la sindrome dello specchietto retrovisore". Nulla di più lontano, quindi, da un progressismo di maniera o da qualche apocalissi annunciata. E' comunque vero che "il nuovo ambiente in formazione serve, inconsciamente, a filtrare e a leggere il vecchio", e le stesse tecnologie del passato vengono "inglobate" in quelle nuove, per esempio oggi potremmo parlare della radio sul web (podcast) o del libro che diventa e-book.

In questo contesto di cambiamenti incessanti, McLuhan distingueva, com'è noto, tra media "caldi" e media "freddi". Distinzione, quest'ultima, che ha creato non poche confusioni. Se la nuova forma della civiltà è il cosiddetto "villaggio globale", la sua forma non è semplice e non somiglia a quel caos indistinto che appare dall'esterno: il global village funziona grazie a situazioni mediatiche diverse, a un intreccio filamentoso di dispositivi che non hanno tutti le stesse caratteristiche. "I media sono caldi o freddi a seconda dell'intensità della risposta che sollecitano" precisa Lamberti, ricordando che "i media freddi inducono il fruitore a un impegno maggiore per completare la comunicazione, il passaggio di informazioni (è il caso, per esempio, di una comunicazione orale fatta per telefono); quelli caldi abbondano di informazioni e dettagli e richiedono uno sforzo minore (la fotografia offre molte informazioni visive che semplificano il nostro sforzo percettivo)".

Nel campo dei media elettrici, secondo McLuhan "il cinema si configura come un mezzo caldo perché, pur essendo una forma di espressione non verbale, è comunque un mezzo ad alta definizione: lo spettatore è posto di fronte a un flusso di immagini, tanti fotogrammi, che "scorrono" in rapida sequenza sullo schermo", al contrario della televisione che è un mezzo freddo nel quale l'immagine non è data (fotografia) ma composta da piccoli punti di luce come in un quadro di Seurat, e perciò impegna di più la percezione dello spettatore. Al di là del fatto che questo genere di classificazioni mostrano la corda con il tempo- specialmente se consideriamo che la televisione di cui parlava McLuhan era quella in bianco e nero e che del cinema non mostra di aver compreso il potenziale simbolico e linguistico (oggetto di studi che si svilupperanno negli Settanta grazie, per esempio, alla semiologia del film)-, l'essenziale rimane l'esplorazione del campo dei linguaggi dei media, della loro capacità di coinvolgerci e di esaltare alcuni tratti della percezione quanto di ottunderne altri, in un gioco che si dimostrerà presto senza fine.

L'enfasi della cività occidentale sull'occhio e sul canale visivo, per esempio, finisce con l'addormentare la capacità di ascolto; l'aver imparato a leggere e scrivere mediante l'alfabeto fonetico, oggetto di studio del già citato La Galassia Gutenberg, ha favorito il pensiero lineare ma abbiamo dovuto accontentarci di tenere la poesia lontana dalla logica non conoscendo la semantica più complessa degli ideogrammi orientali. Insomma, il codice linguistico e culturale che scegliamo o che ci impongono di usare determina i limiti del campo d'azione e di pensiero nel quale possiamo intervenire, e non rimane altro da fare che mantenere la coscienza lucida di chi non si accontenta e segue nuove piste sensoriali quanto culturali. McLuhan ha aperto un sentiero molto ricco e sconfinato, non meno di quel celebre racconto di Borges in cui, per l'appunto, i sentieri si biforcano all'infinito.

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