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Il lavoro e le persone svantaggiate

Un rapporto che sfata molti luoghi comuni

Un Istituto di Ivrea, che si occupa da decenni (esattamente dal 1857) di favorire l’accesso al lavoro per le persone socialmente svantaggiate, ha realizzato un rapporto sconcertante, che finisce per sfatare tutta una serie di luoghi comuni su questo tema ai quali, per pigrizia o per miopia, siamo abituati. Il rapporto fa riferimento a esperienze sul campo svolte negli ultimi ventanni nell’area di Ivrea, un’area che, fecondata da una cultura industriale illuminata come la Olivetti, ha saputo elaborare esperienze interessanti nell’ambito lavorativo anche sul tema delle persone svantaggiate. E contiene dati urticanti.
 
Intanto, la persona socialmente svantaggiata fornisce una prestazione lavorativa il cui valore medio, rapportato agli standard lavorativi correnti, è attorno al 30%. E’ quindi ovvio, purtroppo, che nessun datore di lavoro sia disponibile ad inserire nel proprio organico queste persone. Se è obbligato (vedi la legislazione relativa alle catogorie protette) evita di farlo. L’elusione della legge, sia da parte delle imprese private che degli enti pubblici, è massiccia. Con buona pace di tutti. Il valore ridotto della prestazione lavorativa delle persone svantaggiate solo nel 20% dei casi è determinato da limiti funzionali oggettivi della persona. In tutti gli altri casi si tratta di prestazione scadente a causa di comportamenti soggettivi disfunzionali per il contesto organizzativo (saltuarietà o irregolarità delle presenza; difficoltà o incapacità di relazione con i ruoli organizzativi: colleghi, responsabili, collaboratori; scarsa attenzione alla qualità e ai metodi di lavoro prescritti; insufficiente rispetto degli standard quantitativi indicati).
 
Giocano qui elementi di volontarietà che risentono della mancata acquisizione delle abilità necessarie per lo svolgimento di qualunque lavoro. E quindi un livello di impegno individuale della persona che deve essere stimolato e rafforzato. L’attuale sistema pubblico di sostegno al lavoro per le persone svantaggiate è strutturato su una logica assistenziale. Si preoccupa cioè più di offrire un reddito da lavoro alle persone svantaggiate (peraltro con risultati scarsissimi, visto che il 90% sono stabilmente disoccupate), che non di metterle in condizione di guadagnarselo. Invece di fornire la canna da pesca si preoccupa di offrire il pesce fritto. Il rapporto segnala ancora che il sistema delle griglie che definisce i requisiti per essere "sostenuti" al lavoro esclude di fatto la metà della popolazione svantaggiata, che esprime sintomi di svantaggio sociale reali ma "non previsti". Si tratta dello "svantaggio sociale sommerso". Una luce di speranza tuttavia il rapporto la fornisce: su un gruppo di persone svantaggiate occupate in un contesto lavorativo "vero", in condizioni organizzative adeguate, nell’arco di due anni, il 50% delle persone svantaggiate ha incrementato il valore della propria prestazione: il valore medio della prestazione è passato dal 30% al 70%. Cioè su valori non molto distanti dagli standard correnti. Per questo l’Istituto sta proponendo alle istituzioni pubbliche di avviare una sperimentazione controllata di questo modello organizzativo.

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