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Lavoro e disabilità: il principio attivo

Il "principio attivo" esiste non solo in biologia, ma anche nel campo psicosociale.
Il caso del lavoro per le persone svantaggiate.

Anche i problemi più complessi possono trovare una soluzione. Basta tanta pazienza, tanta applicazione, molta modestia, un po' di intelligenza e, soprattutto, la capacità di non dare nulla per scontato.

Ci è capitato occupandoci per molti anni del problema di avvicinare al lavoro le persone socialmente svantaggiate (disabili, persone in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, etilisti, borderline).

Il problema del lavoro per le persone svantaggiate è grave: tutti noi abbiamo potuto vedere qualche persona che, nonostante avesse una occupazione, si è poi ritrovata, per cause diverse, in una situazione di svantaggio sociale. Nessuno di noi invece ha mai visto una persona socialmente svantaggiata superare la situazione di svantaggio senza un lavoro.

Il lavoro dunque strumento essenziale non solo per campare, ma per acquisire i rudimenti del vivere civile e realizzare una integrazione dignitosa nel contesto sociale.

I nostri legislatori, nel corso degli ultimi 60 anni, hanno prodotto un insieme di provvedimenti finalizzati a fronteggiare il problema del lavoro per le persone svantaggiate (che riguarda l'11% della popolazione italiana in età da lavoro, dunque imponente). Senonché questo sistema, pur dotato di notevoli risorse finanziarie, oggi fornisce i seguenti risultati: il 90% delle persone socialmente svantaggiate sono stabilmente disoccupate (con tutti gli effetti collaterali: nuclei familiari sfasciati, sindromi depressive, spinte alla illegalità, ecc).

Ebbene, dopo aver lavorato per oltre vent'anni gomito a gomito con oltre 500 persone svantaggiate, riteniamo di aver individuato il “principio attivo” che rende possibile l'accesso al lavoro da parte della persona svantaggiata.

In breve:

per l'80% dei casi non è il reddito da lavoro che risolve la situazione di svantaggio sociale, ma l'acquisizione delle abilità sociali necessarie per poter lavorare (capacità di interagire positivamente in un contesto organizzato orientato ad un risultato economico), cioè la capacità di misurarsi con i propri risultati.

L'acquisizione delle abilità sociali è possibile soltanto in un contesto lavorativo “normale” nel quale la persona svantaggiata si possa confrontare (anche sotto l'aspetto retributivo) con i propri risultati. Questo confronto (che specialmente all'inizio è traumatico) deve essere guidato e mediato da una persona con esperienza lavorativa pregressa adeguata che, in virtù del proprio ruolo “asimmetrico” rispetto al contesto economico di riferimento (perché svolto a titolo volontario gratuito) viene facilmente assunta dalla persona svantaggiata come modello di riferimento.

Dunque una logica capovolta rispetto all'attuale sistema di sostegno al lavoro per le persone svantaggiate: non contesti lavorativi “protetti” dove il confronto persona/risultati è risolto (protetto) dalla garanzia del reddito a prescindere, ma contesti “normali”, dove questo confronto è mediato/guidato da un “maestro di lavoro”.

L'analisi di 570 casi personali, con risultati sorprendenti in termini di miglioramento della prestazione lavorativa e quindi di svantaggio sociale, ci ha indicato questo.

Abbiamo elaborato un modello operativo che contiene questo “principio attivo” e ci stiamo confrontando con le istituzioni per sperimentarlo a livello locale.

 

Credits Foto: Prodigio

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