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Il San Miguel Primavera Sound 2012 in cinque scatti, una riflessione, e un paio di aneddoti

Ascoltare Jeff Mangum cantare le canzoni dei Neutral Milk Hotel è un po’ come il sogno della vita, sembra così lontano, eppure è così vicino al cuore; infatti Jeff è l’unico a dire venite più vicino se volete, e il pubblico non se lo fa mica ripetere due volte, a dispetto di tutta la vigilanza ingessata ecco calarsi dalle poltroncine dell’Auditorium qualche centinaio di persone, senza alcuno scrupolo. Le canzoni che canta Jeff sono quelle ascoltate mille volte nella propria stanzetta, quelle di quell’album dalla copertina strana, e quando Jeff le intona accompagnato dalla chitarra, una voce sovrannaturale che ti entra dentro a stringerti il cuore, è come se un’orchestra intera ti risuonasse in testa, come se lui venisse a sedersi proprio accanto a te, gli occhi spiritati, e ti prendesse poi per mano per lasciarti accomodare su quell’aeroplano, biglietto di sola andata per un’altra dimensione, magari, sopra e al di là del mare, serve altro? Non sai nemmeno quello che sta cantando magari, ma l’emozione è così forte, il buio intorno e lui lì come una luce in fondo al tunnel, che la commozione è inevitabile.

 
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E prima ancora Michael Gira in camicia bianca, la chitarra acustica più apocalittica e sferragliante del mondo, seduto ma invasato come non mai, cappello da cowboy poggiato sghembo su un’asta lì accanto, i capelli lunghi e argentati a nascondergli il viso; «Adesso vi faccio un pezzo rumoroso», a un certo punto dice, e rosso in faccia si mette a urlare come se non ci fosse domani, e forse è davvero così, si prende a schiaffi da solo e tu sei li a guardarlo, a sentirlo incredulo, lui è solo due metri più in là ma è come se la sua voce provenisse dall’oltretomba. Quando ti stringe la mano la sensazione è confermata, Michael Gira è un gigante, e tu hai avuto la fortuna di incontrarlo.
 
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Mentre chissà cosa deve essere passato per la mente di Jason Pierce, voce e droghe degli Spiritualized, quando alla fine di un concerto estatico più che mai ha preso e buttato all’aria tutto, microfoni, chitarra, amplificatori. Ma Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space è anche questo evidentemente, soprattutto questo, vestiti di bianco nella notte più scura, gli occhiali da sole a proteggerci da visioni indesiderate, il cosmo non è mai stato più vicino, e al diavolo i calmanti e tutto il resto. Yin e Yang, bianco e nero, lo scazzo ci sta anche, dopo tanta amorosa beatitudine.
 
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Ma l’estasi può prendere varie forme, questo lo sapevano anche i santi, e alla leggiadria dello spazio può certo affiancarsi il rumore più forte e materico, eppure così limpido e illuminante. Quando ci sono i Refused sul palco non esiste nient’altro, il mondo è una merda, questo lo sappiamo tutti, ma per un’ora possiamo anche dimenticarcene e saltare tutti insieme, una massa compatta di persone che salta all’unisono, un solo corpo e una sola mente; le chitarre più potenti del festival, al di là di qualsiasi altra obsoleta velleità metal (scusate ma non è la nostra tazza di tè, non più), sovrastate dalle urla di un bianco in cui sembra essersi reincarnato il James Brown più nero, capriole, ruote, spaccate che si sprecano, gran ballerino il cantante, non c’è che dire. Il mondo oggi è ancora peggio di allora, ci sono ancora più motivi per essere incazzati, questa è la morale della favola, eppure tutto questo rumore sembra più nuovo che mai, temprante, fortificante, possiamo ancora farcela, sì.
 
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E se ancora non ne siete convinti, sarebbe bastato essere al concerto dei Black Lips, chiusura azzeccatissima all’Apolo, locale come dovrebbe esserci in ogni città che vuole ritenersi tale, pieno da scoppiare, basta il primo riff di chitarra e c’è gente che vola ovunque, punk adolescenti, hipster dell’ultim’ora, ubriachi di mezz’età, avvistate anche balene bionde senza pudore, giusto così, perché non c’è niente di più bello che lasciarsi andare su un centinaio di mani pronte a sostenerti, e graffi e lividi sono il prezzo da pagare per vivere uno di quei momenti irripetibili della storia della musica, tipo i Sex Pistols che sputano addosso al pubblico e viceversa, Jim Morrison che caccia il pisello da fuori contento di venire arrestato, Iggy Pop che si taglia a sangue e si fa calpestare dal suo chitarrista di fiducia. Cosa ne vogliono mai capire di tutto questo degli ottusi buttafuori dal cervello inversamente proporzionale alla loro massa muscolare, pronti a picchiare un ragazzino in tre, certo che se la sarebbero meritata la rissa, ché è solo questa la lingua che capiscono, no? Un chitarrista che nel delirio più completo si inginocchia, in mezzo a rotoli di carta igienica fluttuanti e bottiglie fracassate, la chitarra tra le gambe, gli occhi chiusi, e suona il fraseggio più zen del mondo, a noi basta questo.
 
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Queste parole per raccontare un po’ del San Miguel Primavera Sound 2012, ecco, il tentativo di racchiudere la sua essenza in cinque (personalissimi, certo) attimi, anche se ce ne sarebbero infiniti altri per un festival così, cominciato in città gratuitamente (più musica per tutti!) già da settimane prima del vero e proprio evento, e poi continuato per cinque giorni pieni, è così che dovrebbe sempre essere, in un mondo migliore. Poter vedere tanti gruppi insieme, dei più disparati, AfroCubism e Bombino accanto ai Napalm Death e ai Mayhem, ma sì, i Beach House insieme ai Rapture, Pop Group contro i Justice, gli M83 subito dopo i Cure, i Chromatics a braccetto con gli Afghan Whigs, i rilassati Wilco e gli incazzati Beach Fossils, Dirty Beaches da una parte e Kindness dall’altra, senza contare svariate novità provenienti da tutto il mondo (il fantasmagorico Boxeur The Coeur e gli inediti King Of The Opera, per quanto riguarda l’italico stivale)… perché no? Nell’era dell’mp3 tascabile è certo possibile ascoltare tutto questo, e allora perché in Italia un festival del genere appare come fantascienza? Perché dobbiamo ancora accontentarci (e ringraziare anche, magari) di festival in cui è ancora una decrepita rockstar cinquantenne ad attirare le greggi? Basta twittare ogni cinque minuti, per ritenersi moderno? L’orrore, avrebbe detto qualcuno, e lo confermiamo anche noi, qui, adesso, e per sempre.
 
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Il Primavera è un festival dove in mezzo a migliaia di persone può capitarti di incontrare per ben due volte un tipo come Josh T. Pearson, cavaliere dolce e solitario, barba lunga e occhi azzurri, la prima volta sei tu che lo saluti e lui ti mette una mano sulla pancia a mo’ di gesto apotropaico, chissà, la seconda invece è proprio lui a stringerti la mano, l’ultimo dei gentiluomini, «Ce l’abbiamo fatta», ti dice all’orecchio, non importa cosa, ma sì, ce l’abbiamo fatta, caro Josh, l’abbiamo sfangata anche questa volta; il Primavera è un festival dove può capitarti di trovare un macchinetta fotografica a terra, e tra le foto scattate dalla poverina che se l’è persa ci sei anche tu dentro, non è un film di quel pazzo di Haneke, è una storia vera, perché quelli che vanno al Primavera sono tutti una grande famiglia; il Primavera durerà solo cinque giorni, sì, ma è per sempre, perché ci sarà pure un motivo se sono gli stessi gruppi a dire che è il miglior festival del mondo; perché il Primavera è uno stato mentale, anzi, una specie di magia.
 
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