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Hobsbawm ed Elkann: il marxismo che piace a lorsignori...

 

Il mio giornalaio mi segnala spesso riviste monografiche dedicate a Marx e al marxismo, e si stupisce della mia diffidenza. Pare siano molto ricercati dagli studenti in attesa del tema di italiano alla maturità, che portroppo spesso sono costretti a farsi un’idea su Marx soprattutto su questi strumenti. Ma anche sui maggiori quotidiani ritrovo periodici omaggi al “grande pensatore” e a certi suoi interpreti che mi fanno rabbrividire: l’ultimo è apparso su “la Stampa” il 1° luglio e mi ha lasciato praticamente sotto shock per alcuni giorni, prima che mi decidessi a segnalarlo.

L’intervistatore è una “grande firma” del giornalismo italiano, Alain Elkann, che fu “sodale di Alberto Moravia e Indro Montanelli”, e vanta collaborazioni con rabbini e vescovi illustri, oltre che con il re di Giordania Abdullah. Lasciamo perdere i suoi meriti di principe consorte di una Agnelli, e di padre di un capitano d’industria che dopo vari passaggi per la cronaca rosa e nera compare spesso – per meriti familiari - al fianco di Sergio Marchionne. Il guaio è il nome dell’intervistato, che a me, giovane studente di storia era stato molto caro: Eric Hobsbawm. Negli anni Sessanta per chi come me si era formato sui Quaderni dal carcere di Gramsci Hobsbawm era stato infatti un punto di riferimento prezioso con i suoi studi sui Primitive Rebels, sul brigantaggio, sulle rivolte del sottoproletariato urbano in Europa.

Mi aveva già deluso al momento del crollo dell’URSS quando aveva cominciato la sua revisione: quando la Russia post sovietica finì in mano a oligarchi (allevati nella nomenclatura) Hobsbawm aveva detto fatalisticamente: “Forse nel 1917 era meglio non prendere il potere”. Di domandarsi perché l’URSS fosse finita così miseramente, neanche a parlarne, ma non era solo, era in foltissima compagnia… Ne avevo parlato in Rileggere Marx attraverso Lenin, e più recentemente in L’eredità dello stalinismo, la Libia e la Siria.

D’altra parte era sospetto l’entusiasmo bipartisan per un suo libro celebratissimo, diventato un punto di riferimento per definire il Novecento (Il secolo breve), che su alcuni grandi nodi della storia di quel secolo, come la rivoluzione del 1936 in Spagna e Francia, o la crisi prerivoluzionaria che accompagnò la resistenza al fascismo in Grecia e in Italia, non meno che in Jugoslavia, accettava semplicemente la versione staliniana. Insomma uno storico, che era grande quando affrontava microfenomeni di rivolte popolari, finiva per considerare inevitabile tutto quel che era accaduto, senza prendere mai in considerazione le proposte diverse da quelle dei vincitori, che pure vi erano state in alcuni grandi “bivii della storia”. E senza capire che l’involuzione e poi il declino dell’URSS era stato facilitato proprio dalla sconfitta di molte rivoluzioni di cui il movimento comunista stalinizzato – in nome del "realismo" e dei "due tempi" - era stato responsabile non meno dell’imperialismo.

Ma ora Eric Hobsbawm non ha avuto pudore, e ha detto solennemente sciocchezze non su un passato che (purtroppo) ben pochi conoscono, ma sul presente. Prima di tutto mette una pietra tombale sulle rivoluzioni arabe, ma su questo anche nella sinistra italiana non sono in molti a condividere il mio fastidio per il suo semplicistico giudizio: “Ero molto favorevole, felice perché non mi aspettavo di vivere abbastanza a lungo per vedere gente buttare per aria dei regimi militari. Sembrava il 1848”. La sua delusione dipende da una assoluta banalità, che presenta come “una delle grandi lezioni della storia”: “E' più facile far finire un regime che sostituirlo”… Non ci saremmo arrivati!

Ma poi Hobsbawm pontifica anche sulla crisi attuale del capitalismo: “Il sistema capitalistico non funziona più”. Anche questa non è una grande scoperta, ma potremmo accontentarci se non precisasse che la causa è “la mancanza di leadership, di persone che decidono”, e non insistesse su una spiegazione sospetta: “Non ci sono accordi tra i due o tre principali paesi del mondo, nessuno decide più”…

Dopo aver sparato altre banalità su Germania, l’euro, la Gran Bretagna, USA e Cina, l’impossibilità di una guerra (che esclude categoricamente), passa a caratterizzare la nostra epoca: è vero che “nessuno decide” e quindi “pochi individui o governi sanno cosa accadrà tra cinque anni”, a differenza dei bei tempi (che per lui sono quelli tra il 1945 e i primi anni ’70), ma possiamo essere soddisfatti.

Alla domanda “come sta oggi il mondo”, Hobsbawm non ha dubbi: “Molto meglio. Le condizioni dell’uomo oggi sono migliori perché gli uomini vivono più a lungo e hanno più scelte nella loro vita. Anche quando pensiamo a potenziali catastrofi e a quante persone sono morte nel ventesimo secolo, la vita umana è migliorata. Tra quaranta anni le persone staranno ancora meglio e noi stiamo già molto meglio dei nostri nonni e dei nostri genitori”.

Amen, potremmo mettere una pietra sopra sul vecchio ex storico, consolandoci con la lettura del leopardiano Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, se il perfido Elkann non avesse provocato con l’ultima domanda (“Lei è ancora comunista?”) questa professione di fede:

“Il comunismo non esiste più. Sono leale (?) alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista”.

Beh, che basti per essere comunista credere nell’impossibilità di una rivoluzione, mi pare dubbio. Ma sentiamo cosa intende per essere “marxista”:

“Io sono marxista perché penso che non ci sarà stabilità finché il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello in cui ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia”.

Ecco la chiave: a Elkann piace questo “marxista” perché assomiglia tanto a Bersani e soci. Aspetta che il capitalismo si trasformi da solo, proprio come Bersani ingozza rospi dal governo Monti, ma spera che cambi e smetta di realizzare il programma più organicamente di destra dell’Italia repubblicana. Intanto gli assicura i suoi voti.

La somiglianza non è casuale: Eric Hobsbawm ripete di essere “leale” (una formula tipica del socialismo reale) alle idee che ha coltivato per anni, ma soprattutto a come venivano portate avanti in Italia dal PCI, che gli piaceva di più del suo minuscolo partito comunista britannico, anche perché era grande e influente. Ma Hobsbawm non si domanda perché quel grande partito è crollato e si è trasformato attraverso vari passaggi in un partito del tutto insignificante. Le ragioni sono molte, ma ha pesato anche quel fatalismo determinista ancora caro all’ex storico, e che non a caso viene riproposto come “marxismo” dai vari Elkann.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di sarino (---.---.---.135) 8 luglio 2012 12:05
    Rosario Grillo

    mi sembra una stroncatura eccessiva per il povero Hobsbawm, al quale dobbiamo concedere l’attenuante dell’età. L’età, comunque, non significa rimbambimento, ma drastico ridimensionamento dell’empito rivoluzionario. Dello stesso Hobsbawm citerei il classico Le rivoluzioni borghesi, decisamente innovativo sul piano storiografico. Il secolo breve risente di una lettura inadeguata al lungo periodo, ma è stato spunto di un largo dibattito. La storia, mi hanno insegnato, è campo di ipotesi, di cui è neccessaria la prova documentaria. Non è invece luogo di tesi precostitiute e dogmatiche, anche se di specie marxista-leninista. Povera sinistra : ha sempre sofferto di questa supponenza!!

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