Evviva il coraggio della dissidenza!
Grazie, grazie e grazie, senatori M5S dissidenti! Io vi ho votato e voi mi avete rappresentato bene, malgrado la fatwa del vostro ayatollah Grillo.
Ebbene, sì: io per il senato ho votato M5S (mentre per la Camera e la Regione ho votato Rivoluzione Civile, sperando che superasse il quorum), quindi io sono un elettore dei senatori M5S, e come elettore, qui dico la mia su chi e come dovrebbe rappresentarmi.
Grazie al porcellum (ma anche con il mattarellum o con l'uninominale sarebbe esattamente lo stesso) io non so quale senatore M5S mi rappresenta. Però so che i senatori M5S sono 54 e che 12 di loro, cioè il 22%, non ha avuto paura della fatwa di Grillo che condannava chiunque non rispettasse la sharia del M5S.
Quel 22% ha votato positivamente al ballottaggio per il presidente del senato ed è stato determinante per l'elezione di Grasso contro Schifano. Quel 22% di senatori è entrato in dissidenza con il suo gruppo e con il suo leader per rappresentarmi, e io li ringrazio tre volte per quanto hanno fatto.
Li ringrazio innanzitutto per il risultato ottenuto: oggi il presidente del Senato è persona che ha ufficialmente dedicato la vita a rappresentare lo stato contro la mafia e non un avvocato indagato per i suoi dubbi rapporti con i mafiosi.
Li ringrazio per avere coraggiosamente agito "secondo coscienza", cioè secondo ciò che loro sentivano giusto e che ritenevano sentissero giusto i loro elettori.
Li ringrazio perché con il loro esempio di dissidenza alla dittatura del non-partito hanno aperto la via al cambiamento di questo malgovernato paese.
Il terzo "ringraziamento" aprirebbe un discorso complesso: è totalmente falso che per cambiare questo paese si possa stare seduti in parlamento, guardare le leggi che passano, approvare quelle che sembrano buone e votare contro quelle cattive.
Per cambiare servono soprattutto programmi di governo e coerenti azioni di governo: senza quei programmi e quelle azioni le leggi sono inapplicabili o non applicate o applicate soltanto contro i deboli o soltanto a favore dei forti, per cui la fiducia ad un governo di cui si condividano i programmi e le persone è un ingrediente irrinunciabile del governo e quindi del cambiamento.
Che quella fiducia, sia quella sostanziale che quella formalizzata con il voto, debba venire da più di un partito è oggi un dato di fatto indiscutibile. E questo discorso sarà inevitabilmente all'ordine del giorno dei prossimi eventi parlamentari, anche se si ripeteranno i tentativi di nasconderlo dietro formule e slogan.
Io qui voglio invece insistere sul mio secondo "ringraziamento", quello per avere avuto il coraggio e la correttezza di agire "secondo coscienza" e "senza vincolo di mandato", nel momento in cui quell'agire "secondo coscienza" viene invece criticato, e non soltanto da Grillo.
Questi infatti sostiene che i parlamentari M5S sarebbero soggetti al non-statuto e a regole che loro hanno sottoscritto e che lui interpreta, per cui i suoi parlamentari-soldatini dovrebbero tutti unanimamente obbedire ai suoi ordini-interpretazioni: è arrivato al punto di attaccare pubblicamente l'art. 67 della costituzione italiana che prescrive ad ogni parlamentare di "esercitare la sua funzione senza vincoli di mandato". Se così non fosse, neanche si capisce a cosa servirebbero tanti parlamentari-soldatini: basterebbero uno per partito, con voto pesato quanto i parlamentari-soldatini; si risparmierebbero tempo e soldi.
In questa sua pretesa Grillo appare un innovatore, ma è falso: è stato preceduto da molti altri, ad esempio da Calderoli con il suo "porcellum", che di fatto ha modificato la costituzione, vincolando ogni parlamentare alla segreteria del suo partito: se il parlamentare non obbedisce al partito viene trombato all'elezione successiva; trombato non dagli elettori, ma dal partito che sceglie la posizione in cui metterlo in lista. Ovviamente, il vincolo è relativo: il parlamentare può sempre essere comprato-risarcito (caso De Gregorio) o comprato e garantito-rieletto altrove (caso Scilipoti).
Ma il precursore più importante è stato Berlusconi (con la sua corte di avvocati-ideologi, Ghedini in testa), secondo cui la democrazia rappresentativa vige per un weekend ogni cinque anni, dopodichè l'eletto può fare ciò che vuole, e se ha conquistato la maggioranza può anche violare qualsiasi legge, violentare sia la nonna che la nipote, perché se lui lo fa, concretizza così il sacro volere degli elettori, sancito dalla votazione precedente.
I miei complimenti quindi ai parlamentari che hanno avuto il coraggio di disobbedire al partito papà-padrone, ma basta questa dissidenza? E la dissidenza è compatibile con il rispetto degli impegni presi nei programmi elettorali e poi nei programmi di governo? E poi, il parlamentare può essere semplicemente un ossequiente esecutore di programmi o deve poter affrontare i problemi imprevisti?
Ad esempio: nessun programma elettorale o di governo prevederà mai che un paio di marò invece che sparare ai pirati si mettano a sparare ai pescatori, oppure che un governo italiano si rimangi la parola data in un accordo con altro governo, eppure i parlamentari eletti dovranno affrontare questi imprevisti: come? Si potrà cercare la via giusta andando ad "interpretare" i programmi pre-elettorali? Ciascun parlamentare deve interrogare la sua coscienza?
Non è né facile né semplice rispondere a queste domande, ma si deve dare atto proprio a Grillo e a Casaleggio di avere teorizzato una risposta: a fronte di problemi nuovi si deve decidere con la democrazia diretta. Però i guai sono almeno due:
- il primo è che, alla prova dei fatti, loro se lo sono completamente dimenticato: nessun accenno a consultare la loro base su "quale governo" e "come" farlo partire;
- il secondo è che la democrazia diretta è un concetto attraente, ma manca di definizioni, di regole e di applicazioni, mentre è chiaro che sorgerebbero tanti e gravi problemi; ad esempio: chi voterebbe? Solo gli elettori di un partito per "dirigere" i loro rappresentanti? E come la mettiamo con la segretezza di voto? Voterebbero tutti i cittadini italiani? Voterebbero tutti e soli quelli che navigano in internet? E tutti i parlamentari dovrebbero poi adeguarsi alla maggioranza? Le minoranze che rappresentanza avrebbero? E come si potrebbe garantire la correttezza di così tante "votazioni"?
È anche chiaro che non tutte le problematiche possono essere risolte con formule di democrazia diretta rivolta a tutti i cittadini, sia perché non tutti possono comprendere certi problemi, sia perché ci sarebbero forti rischi di dittatura delle maggioranze e altri rischi di controllo e orientamento delle maggioranze. Ma chi avrebbe il potere di decidere quali problemi sottoporre a democrazia diretta e quali no?
Le difficoltà ci sono, sia a livello teorico che operativo, ma vale la pena di porsi il problema e di avviare sperimentazioni, almeno a certi livelli e su certe problematiche.
Esistono molti esempi di consultazioni su specifici problemi effettuate con sia con "circoli rappresentativi", sia con tecniche di sondaggio, ma sono state consultazioni con finalità tutt'altro che decisionali, riassumibili nella finalità di "capire quali i bisogni" oppure "cosa promettere", piuttosto che "cosa fare".
Un precedente decisamente interessante si è avuto in Italia con le primarie: non sono normate dalla costituzione e neanche dalle leggi, ma due partiti hanno deciso di farle: il PD e il M5S.
Però il M5S non ha sottoposto a primarie la sua leadership, mentre la scelta dei candidati è stata insoddisfacente per entrambi i due partiti.
Si può dire che l'avvio è stato un passo positivo verso la democrazia di partito, ma tutto da perfezionare, e non è affatto chiaro come, anche per l'interdipendenza delle primarie con la legge elettorale, che a parole tutti vorrebbero cambiare ma che forse non cambierà mai, perché ai partiti fa troppo comodo così com'è.
Le primarie hanno comunque il difetto di rientrare nello schema della "democrazia una volta ogni cinque anni", mentre la democrazia diretta, con tutte le sue difficoltà, prometterebbe "democrazia sempre" e anche "su problemi nuovi".
C'è chi si è posto seriamente il problema e, sempre a livello di partito, avrebbe individuato la soluzione nelle "doparie", cioè in consultazioni di partito su problematiche rilevanti, ma consultazioni da fare dopo le elezioni, non per scegliere i rappresentanti di quel partito, ma per orientarli sul parere degli elettori.
È chiaro che si sente un gran bisogno di "democrazia di partito", anche a fronte del consistente rischio che, con il bipartitismo, gli elettori si trovino di fronte a due soli partiti che si sono già accordati su tutti i temi rilevanti, per cui l'elettore sceglie dei burattini che però faranno sempre ciò che decide il burattinaio unico.
Altri rifiutano il livello di partito e teorizzano la democrazia diretta dei cittadini, senza più mediazione di partito.
Ne esistono realizzazioni pratiche, ma soltanto in comunità molto piccole. Qualcuno teorizza invece la democrazia diretta a livello di stato, anche se supera il miliardo di abitanti, qualcun altro addirittura a livello mondiale, ma dopo aver ridotto il numero di abitanti con una guerra mondiale.
Io ritengo che la democrazia fra milioni di individui sia cosa difficile, che sia sempre meno proponibile per numeri superiori, e mi spaventa molto quella "crazia" ridotta al numero uno, come un solo dittatore, con o senza i suoi cortigiani.
La dimensione di decine di parlamentari che su singoli problemi italiani dibattono fra loro e con i loro elettori, al momento mi sembra la più rassicurante e la più praticabile.
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