L’uomo e altri animali. 1
Dànilo Mainardi era un noto naturalista e uno dei primi etologi italiani, morto recentemente. In questo interessantissimo libro raccoglie le sue molte considerazioni su analogie e differenze fra gli uomini e gli altri animali. Ne raccolgo qui alcune, insieme alle mie.
L’etologia ci mostra come l’uomo, essendosi evoluto socialmente e culturalmente, si sia allontanato sempre più dal posto che occupava in natura, dove era coevoluto in equilibrio con gli altri animali africani.
OMOLOGIE E ANALOGIE.
Le somiglianze morfologiche, funzionali e comportamentali dovute a vicinanze genetiche nella stessa linea evolutiva sono omologie. Per noi ancora più interessanti sono le analogie fra animali evolutivamente lontani, perché ci evidenziano come le pressioni adattive e selettive degli ambienti hanno prodotto alcuni risultati morfologici, funzionali e comportamentali simili su animali ben diversi. Ad esempio: analoghe sono le ali degli insetti, degli uccelli e dei pipistrelli, analoghe sono le morfologie idrodinamiche dei pesci e dei mammiferi cetacei.
Le due grandi forze evolutive sono i processi naturali-biologici e i processi culturali: due processi diversi ma fondati sugli stessi meccanismi adattivi e selettivi che perciò possono anch’essi produrre risultati analoghi.
A Est delle linea di Wallace (è stato l’altro scopritore e teorizzatore di quell’evoluzione che noi oggi chiamiamo soltanto Darwiniana), in Indonesia e Australia, si sono evoluti marsupiali invece che placentati; sorprendentemente la loro evoluzione ha prodotto alcune specie fortemente analoghe ad altre placentate; Dànilo Mainardi (DM) cita una decina di coppie (placentato-marsupiale) fortemente analoghe, come lupo - tilacino, tigre dai denti a sciabola – marsupiale dai denti a sciabola, toporagno – opossum toporagno, scoiattolo volante – petauro volante; ma secondo me il caso per noi più interessante è quello di un’analogia più debole: quella dei placentati ominini (cioè gli australopitechi e gli uomini) con i marsupiali canguro : entrambi sono bipedi eretti ed entrambi utilizzano gli arti anteriori/superiori per funzioni non di locomozione. Entrambi sono poi parzialmente analoghi a un grande uccello: lo struzzo, un veloce bipede, le cui ali atrofizzate però non hanno funzioni rilevanti.
ADATTAMENTI E COEVOLUZIONE. STRATEGIE “K” E “R”.
Quando l’ambiente è una nicchia ecologica di piante e/o animali l’evoluzione naturale, che coinvolge interattivamente le specie di quella nicchia, si chiama coevoluzione, in quanto quelle specie si co-evolvono insieme per mantenere un equilibrio accettabile in quella nicchia, cosicchè gli erbivori non estinguono le erbe e i predatori non estinguono le loro prede.
Le specie che hanno meccanismi di autolimitazione demografica per mantenersi in equilibrio con la loro nicchia ecologica seguono una strategia ecologica K. Quelle che non seguono una strategia K sopravvivono con strategie R (le cavallette sono il miglior esempio): si espandono con una crescita anche esponenziale, distruggono il loro ambiente e potrebbero quindi distruggere se stesse, ma sopravvivono emigrando altrove, trovando un altro ambiente adatto, distruggendo anche quello e continuando ad emigrare, fino ad estinguersi o ad evolversi tornando su una strategia K che consenta un equilibrio fra loro e l’ambiente. L’umanità invece ha seguito un percorso inverso: da specie K di raccoglitori cacciatori a specie R che ormai ha colonizzato il mondo intero e quindi, o cambia strategia o va all’estinzione per distruzione dell’ambiente.
Nei processi adattivi di coevoluzione alcune specie si evolvono specializzandosi troppo alla loro nicchia, perdendo quindi la capacità di sopravvivere al di fuori di quelle nicchie e quindi rischiando l’estinzione: è il caso ben noto dei Panda che possono nutrirsi soltanto di germogli di bambù e quello meno noto dei Koala che possono nutrirsi soltanto di foglie di eucalipto. Le specie più generaliste hanno invece migliori probabilità di sopravvivere ai cambi climatici o ad altri sconvolgimenti come la comparsa di altre specie estranee a quella nicchia e infestanti.
SOCIALITA’ E APPRENDIMENTO
DM cita l’aringa come esempio di specie a socialità zero: niente sesso: non si accoppia e non ha neanche alcuna cura della sua prole; rilascia decine di migliaia di uova che soltanto in parte troveranno un maschio che le fecondi e poi soltanto una minima parte non saranno cibate da altre specie. La sopravvivenza della specie è legata al fatto che su tante migliaia qualche unità di uova diventerà aringa adulta, senza che nessuno la difenda e senza che nessuno le insegni a vivere. Ci si aspetterebbe che gli umani siano all’estremo opposto, ma non è così: DM cita invece gli albatri che depongono un solo uovo ogni due o tre anni e poi si dedicano completamente ad allevare quel loro figlio unico: un alto investimento su ben poca prole.
La stragrande maggioranza degli animali ha interazioni sociali nel trovare un partner, nell’accoppiarsi e nell’allevare la prole per la quale costruisce nidi o tane e poi difende e nutre. Alcune specie però sono sociali, in quanto hanno tante altre interazioni all’interno del loro branco, nella caccia, nello sfuggire ai predatori, nel difendersene costruendo dighe o formicai o organizzando turni di vigilanza e, sopratutto, nel proteggere, allevare e istruire la prole del branco. Alla base di quelle interazioni ci sta la comunicazione. Noi associamo la comunicazione al linguaggio verbale, ma gli animali (fra cui gli uomini) comunicano in tanti altri modi, utilizzando tutti i loro sensi, che sono ben più di cinque: è accertata la comunicazione elettrica, è sospettata la comunicazione magnetica e anche altre che, fino a che non meglio definite, noi chiamiamo telepatiche.
Le forme della comunicazione hanno avuto e hanno tutt’ora molte evoluzioni, anche all’interno di singole specie. In tre isolette giapponesi vivono dei macachi e da quando una barca porta a loro del cibo è comparsa una nuova vocalizzazione che precedentemente mancava e che in lingua umana italiana significa “arriva la barca”. Morfologicamente e geneticamente quei macachi sono sempre gli stessi, ma culturalmente la specie è variata creando tre nuove sottospecie, perché in ogni isola “arriva la barca” lo si dice con tre diverse vocalizzazioni macachesche. Tre diverse evoluzioni culturali.
Anche nell’animale più culturale, l’uomo, buona parte della comunicazione passa per un linguaggio istintivo non verbale; ne sono esempi il riso, il pianto, molte espressioni facciali e le regole grammaticali e di sintassi comuni a tutte le lingue verbali.
La distinzione fra comportamenti istintivi, cioè innati, di origine genetica, e comportamenti invece appresi culturalmente non è così netta e indiscutibile quanto sembra, perché c’è sempre almeno una base genetica che rende possibile quell’apprendimento culturale e altre pulsioni genetiche come la curiosità, la facilità, la voglia e il piacere di apprendere. E’ una pretesa della nostra presuntuosa cultura umana quella di voler separare lo spirito dal corpo, l’uomo dall’animale e quindi l’antropologia culturale dall’etologia.
I piccoli di molte specie dimostrano una grande voglia e capacità di apprendere dai loro genitori o, meglio, da chi appare loro come genitore. K. Lorenz ha osservato i suoi pulcini di oca che tentavano di imitarlo in tutto, pur essendo lui un mammifero umano. E’ il fenomeno di imprinting che è genetico, ma che consente apprendimenti culturali, non solo dai genitori, e che tanta importanza ha avuto all’inizio dei processi di domesticazione fra specie diverse.
Perchè una specie possa evolversi culturalmente è necessario che in quella specie ci sia una trasmissione di informazione da una generazione all’altra. Tale tramissione è sostanzialmente conservativa, il che appare in contrasto con l’evoluzione culturale, ma perchè una qualsiasi innovazione culturale, prodotta da un individuo o da un gruppo, diventi patrimonio della specie è necessario conservarla da una generazione all’altra e ciò avviene attraverso l’insegnamento sociale, che è un comportamento che estende le cure parentali oltre alla madre o alla coppia di genitori. L’insegnamento è un comportamento altruistico che, se l’insegnamento è valido, viene evoluzionisticamente premiato con il successo riproduttivo della prole che ha beneficiato di quell’insegnamento. Così come la trasmissione genica trasmette nella specie la sua sapienza istintiva, l’insegnamento trasmette nella specie la sua cultura.
Nelle specie sociali l’insegnamento viene praticato anche da zii, fratelli e nonni che così, essendo parenti prossimi degli allievi, quindi con molti geni in comune, favoriscono anch’essi la trasmissione dei propri geni. Per un etologo, anche l’insegnamento nella specie umana non è altro che un’evoluzione sociale delle cure parentali di cui beneficia tutta quella popolazione culturale, che diviene così una sottospecie culturalmente distinta dalla specie umana originaria. Dove non c’è un’istruzione pubblica generalizzata, le classi sociali umane sono sottospecie culturalmente distinte. Nell’uomo, gli insegnanti professionisti rinunciano ad utilizzare per se stessi le loro nozioni e si dedicano invece a trasmetterle ad altri; agli etologi questo ricorda il comportamento della lupa o della gatta che nel corso dell’addestramento dei suoi cuccioli inibisce progressivamente il suo personale istinto predatorio per lasciare spazio ai cuccioli che imparino prima a squartare la preda da lei uccisa, poi a ucciderla quando è già così malridotta da non poter reagire o fuggire e poi a catturarla quando è malconcia ma ancora mobile. Anche un non mammifero come la chioccia, che trovando un lombrico si limita a beccarlo, suddividendolo, inibisce il suo istinto afinchè i suoi pulcini imparino facilmente a catturare quei segmenti di lombrico che si muovono malamente.
La ricerca ci suggerisce che il comportamento altruistico fra conspecifici, come quello dell’insegnante verso i suoi allievi, sia favorito dagli stessi meccanismi biologici che favoriscono l’altruismo dei genitori verso i figli: neuroni specchio che possono rappresentare il punto di vista dell’altro e piacevole rilascio di dopamina nel “far del bene” all’altro.
Evolutivamente, l’altruismo biologico ha un antenato e un discendente. L’antenato è il mutualismo, che è un altruismo a ricompensa immediata; è il caso del rinoceronte che consente ad alcuni uccelli di razzolare sulla sua pelle per liberarlo da parassiti di cui questi si nutrono, ed è il caso della caccia sociale che facilita la cattura delle prede. L’altruismo biologico ne è una evoluzione, in quanto accetta anche una ricompensa differita. Nel caso dell’insegnamento, la ricompensa è differita a quando gli allievi diverranno adulti più capaci e cooperativi, ma è differita anche alle generazioni seguenti, in cui sarà premiata la diffusione genica degli altruisti. Probabilmente non è un caso che culture umane come le religioni per inculcare alcuni comportamenti altruistici si siano inventate ricompense differite nel paradiso o nelle successive reincarnazioni: le religioni hanno così di fatto copiato un meccanismo evolutivo naturale: la ricompensa oltre la morte individuale in termini di diffusione genica degli altruisti. Così facendo la cultura umana ha creato un discendente dell’altruismo biologico: l’etica, che impone agli individui un comportamento altruistico anche in assenza di alcuna ricompensa, neanche differita. Quel comportamento che noi oggi chiamiamo il “vero altruismo” è in realtà un altruismo etico, discendente dell’altruismo biologico che invece non avrebbe mai potuto affermarsi evolutivamente se non fosse stato ricompensato con la diffusione dei geni degli altruisti, così come il mutualismo si è affermato evolutivamente perchè la ricompensa individuale al mutualista, con il suo benessere e con il conseguente suo successo riproduttivo, ha prodotto una ricompensa transgenerazionale (quindi genica) che ne ha garantito la diffusione. Non si può comprendere l’antropologia culturale se si ignorano la biologia l’etologia animale.
EVOLUZIONE CULTURALE
Abbiamo visto che l’evoluzione culturale necessita di basi biologiche: pappagalli e altri uccelli possono imparare a pronunciare e usare correttamente parole umane, mentre i primati non umani no: mancano delle basi morfologiche necessarie. Difficile sapere se e quanto gli australopitechi e gli altri uomini parlassero: i comportamenti non ci hanno lasciato prove fossili della loro storia evolutiva. DM cita l’esempio della proboscide dei mastodonti: non ci ha lasciato fossili, ma siamo convinti che esistesse in quanto ce l’hanno loro discendenti come i mammut e gli elefanti. Dell’enorme evoluzione culturale umana abbiamo poche e discutibili tracce: tracce morfologiche, come le capacità craniche, calchi di cervello in cui si possono intravedere alcune circonvoluzioni, pollici meno o meglio opponibili alle altre dita, glottidi più o meno adatte a vocalizzare... abbiamo anche alcuni dei molti loro prodotti, ma quasi tutti sono pietre scheggiate più o meno sapientemente, perchè i molti prodotti lignei, ossei, compositi, le pellicce, le tende, le pitture, non sopravvivono oltre le decine di migliaia di anni. I choppers più primitivi sono in stratificazioni di oltre tre milioni di anni, quando il genere Homo non era ancora comparso, quindi vengono attribuiti ad australopitechi, ma non si sa a quali. M. Harris attribuisce l’ampliamento evolutivo dei crani alla necessità di ossigenare grandi cervelli durante i lunghi inseguimenti di corsa, visto che australopitechi e uomini non sono mai stati grandi velocisti. Se questo è vero, la maggior intelligenza umana sarebbe un prodotto secondario (cioè un sottoprodotto) dell’adattamento all’inseguimento. La zoologia ci offre una interessante analogia: gli intelligentissimi delfini dispongono di grandi cervelli perchè si sono adattati a lunghe apnee.
L’evoluzione culturale umana ha poi avuto un potente acceleratore: lo sviluppo di un linguaggio verbale con cui si sono potuti esprimere raffinati concetti e trasmettere conoscenze sempre più precise e complesse da uomo a uomo e da generazione a generazione; queste trasmissioni di conoscenze sono state anch’esse un effetto secondario di un linguaggio che aveva innanzi tutto scopi operativi: segnalare con precisione l’avvistamento di pericoli o di risorse, suddividere e coordinare il lavoro di gruppo, rafforzare la coesione di gruppo con i canti, oltre che con i riti. Se è difficile individuare le tappe e ancor più i tempi dell’evoluzione culturale umana possiamo però trarre delle indicazioni da come tale evoluzione ha inciso sugli ambienti. Abbiamo detto che gli ominini (cioè australopitechi e uomini) erano specie K, cioè tendenti a mantenersi in equilibrio con il loro ambiente. Ciò non significa che gli ambienti si conservassero immutati: erano in continua evoluzione, ma le specie presenti si co-evolvevano mantenendo un certo equilibrio: le giraffe si adattavano al disseccamento della savana allungando il loro collo per poter brucare le foglie degli alberi. Si trattava di evoluzioni biologiche che avvenivano in tempi lenti, confrontabili fra loro.
La comparsa di evoluzioni culturali ha complicato le cose perchè sono molto più veloci di quelle biologiche, che quindi non riescono a tenere il passo, e così le diverse specie non riescono più a coevolvere insieme. I predatori ominini si sono evoluti troppo rapidamente per le prede e gli altri predatori, animali che quindi in gran parte si sono estinti: se un predatore impara a cacciare in branco, a scegliere bene le sue mazze e le sue pietre e poi a trasformarle in pietre taglienti o appuntite è difficile l’adattamento e la coevoluzione con le altre specie; diventa impossibile se poi quel predatore si inventa reti, trappole, lance, archi, balestre e fucili. Quell’evoluzione culturale che non lascia fossili ha però lasciato altre tracce: l’estinzione di molte specie e il conseguente impoverimento dell’ambiente.
ADDOMESTICAMENTO E AUTOADDOMESTICAMENTO
La domesticazione di altre specie non è frequente, ma non è neanche una attività esclusivamente umana: molte specie antagoniste coevolvono riducendo la loro aggressività, cioè autoaddomesticandosi e arrivando a pacifici mutulismi e anche a simbiosi, per cui entrambe le specie hanno bisogno dell’altra. Molti mammiferi abbisognano di una flora intestinale che altro non è che l’evoluzione di parassiti intestinali in simbionti.
DM cita un interessante caso di recente e rapida autodomesticazione protrattasi per un secolo, a cavallo fra ottocento e novecento dello scorso millennio, ben osservata e ben documentata. Le orche sono cetacei cacciatori sociali, piuttosto analoghe ai lupi: si può dire che siano i lupi del mare. Nel 1828 in una baia del sud australiano è iniziata una caccia umana alle balene, condotta con una ventina di piccole imbarcazioni a remi. Le orche hanno subito realizzato che potevano trarne profitto, perchè gli uomini non consumavano tutta la balena. Se ne sono accorti anche gli squali, che cercavano di divorarsi integralmente le balene arpionate dai balenieri, ma le orche si sono organizzate per allontanare la concorrenza degli squali, cosa subito apprezzata dai balenieri. Le orche hanno quindi “deciso” di aiutare i balenieri avvertendoli, anche quando erano a terra, della comparsa di balene e poi guidandoli verso di loro, e perfino spingendo loro le balene verso i balenieri. Da lupi dei mari le orche si sono rapidamente trasformate in domestici cani del mare, validissimi aiutanti dei cacciatori umani. Per converso, anche i balenieri si sono autoaddomesticati nei riguardo delle orche, convincendosi che ogni baleniere morto in mare si reincarnasse in una orca, che loro chiamavano usando il nome di quel baleniere: erano convinti che i loro avi fossero ancora vivi e cacciassero con loro.
L’analogia con i cani dei cacciatori è stupefacente, ma non totale: i lupi sono stati domesticati dagli uomini uccidendo le lupe, impadronendosi dei loro cuccioli e sostituendosi con l’imprinting ai loro genitori, addestrandoli e accogliendoli nella società umana, ma in posizione decisamente subordinata. Le orche invece hanno collaborato di loro iniziativa interagendo benissimo con i balenieri, ma paritariamente e senza perdere minimamente la loro autonomia: pare che siano state le orche, con le loro sollecitazioni ai balenieri ancora a terra, ad “insegnare” agli umani che la caccia doveva cominciare quando era ancora notte. Dopo un secolo l’utilizzo del petrolio ha reso antieconomica la sempre più difficile caccia alle balene salvandole dall’estinzione, ma ha anche interrotto questo interessante esperimento naturale di autodomesticazione e coevoluzione.
Ho letto recenti studi neuronali e genetici che indicherebbero come i processi di autodomesticazione e quelli di aumento della socialità avrebbero le stesse basi biologiche.
In Siberia, è stato condotto un esperimento di domesticazione delle volpi: per una cinquantina di generazioni sono stati sempre selezionati i cuccioli meno aggressivi ottenendo rapidamente volpi docili, obbedienti e affettuose come cagnolini. Perfino la morfologia delle orecchie si è modificata, assumendo l’aspetto pendulo e remissivo di quelle di un coker. Incredibilmente, quelle volpi domestiche oggi abbaiano come i cani.
La ricerca genetica attuale ci suggerisce che la evoluzione che ha prodotto il genere Homo sia avvenuta non tanto modificando il suo genoma quanto agendo sui geni regolatori dello sviluppo dell’individuo, per cui gli uomini adulti hanno conservato diversi caratteri infantili: testa grande rispetto al corpo, minor aggressività, curiosità, disponibilità ad imparare, giocosità. Si tratta di una tesi non nuova: la “neotenia”, tesi che oggi trova conferme nel ruolo regolatore del DNA silente.
L’articolo prosegue trattando l’antropocene e la guerra
GeriSteve
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