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Trump perde l’Alabama

Dal 1876 ininterrottamente fino al 1960 - quando anche qui brillò la stella di J.F. Kennedy - la maggioranza dei voti alle presidenziali, nel profondo sud dell’Alabama, è sempre andata ai candidati democratici.

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In particolare nelle quattro elezioni consecutive 1932-1944, vinte con un gradimento altissimo da Franklin Delano Roosevelt, recordman assoluto nel 1936 con l’86,38% delle preferenze. Erano i tempi della Grande Depressione e del New Deal, immortalati da John Steinbeck e dal cinema di John Ford. Poi della guerra contro l'asse del male di quei tempi e dell’orgoglio di scoprirsi grande potenza.

Poi iniziò il periodo della guerra fredda che fu politicamente altalenante nello stato: il battagliero repubblicano Barry Goldwater, anche grazie al suo radicale anticomunismo, vinse nel 1964 contro nessuno dal momento che i democratici non presentarono un loro candidato, mentre nel 1968 si affermò un democratico sui generis (non candidato dal suo partito) George Wallace, un esponente del tradizionalismo populista e rurale del sud, contrario alla modernizzazione e sostenitore della segregazione razziale in opposizione alla politica dei diritti civili; impostazione conservatrice che caratterizzava il partito democratico delle origini, in specie al sud, in opposizione ai capitalisti del nord repubblicano. In sintesi una tendenza che univa temi sociali ed economici di “sinistra” con valori tradizionalisti decisamente di “destra”.

Nel 1972 vinse il repubblicano Richard Nixon e nel 1976 il democratico Carter sconfisse Gerald Ford. E infine, dal 1980 con la prima affermazione di Ronald Reagan, iniziò la lunga e ininterrotta (fino a ieri) catena di vittorie rosse, il colore del Great Old Party.

L'Alabama è uno stato conservatore, fatta eccezione solo per una striscia orizzontale di contee progressiste che vanno da quella di Russell ad est fino a quella di Sumter a ovest, dove Hillary Clinton ha battuto sonoramente Donald Trump. Con un picco di voti dell' 82,78% fra i 9mila elettori della piccola contea di Macon.

Per ben 37 anni quindi, gli elettori dell’Alabama, stato del profondo sud oscurantisa e razzista, sono stati ritenuti sicuri sostenitori del Partito Repubblicano che ha sempre vinto con percentuali attorno al 60% di media (solo per la rielezione di George Bush nel 1992 e quella di Reagan del 1980 scesero sotto il 50% riuscendo comunque a vincere).

Alle elezioni senatoriali del 2008 Jeff Sessions sconfisse la concorrente democratica Vivian Davis Figures con 1milione e 300mila voti pari al 63,36%. Più o meno la stessa percentuale (62,08%) e lo stesso numero di voti (1.318mila) che alle presidenziali del 2016 ha regalato a Trump i nove voti elettorali dello stato.

Nel 2014 i democratici non proposero un candidato e Sessions si riaffermò quindi con percentuali bulgare (97,25%) per essere poi nominato ministro dal neopresidente Trump - con una mossa che si è rilevata molto azzardata - e abbandonare il seggio, costringendo gli elettori a tornare alle urne pochi giorni fa.

La corsa per le primarie repubblicane ha visto Trump sostenere pubblicamente in prima battuta Luther Strange, senatore pro-tempore al posto del dimissionario Sessions, e la base del partito - molto radicalizzata su posizioni di estrema destra - optare per un ex-giudice ultracattolico, Roy Moore, accusato di aver molestato da giovane un paio di ragazzine minorenni.

Candidato appoggiato anche da Steve Bannon, l’ex consigliere speciale di Trump, grande sostenitore del presidente con la sua piattaforma mediatica Breitbart News, usata per dare voce e risonanza alle tesi estremiste della Alt-right suprematista, misogina, razzista e antisemita.

La sconfitta di Moore, che Trump aveva etichettato come “non in grado di vincere” (pur decidendo in seguito di sostenerlo) assume quindi un significato decisamente non trascurabile.

Per la prima volta dopo 37 anni i repubblicani perdono un feudo storicamente conservatore. Lo perdono proprio durante la presidenza Trump e in virtù di uno spaccamento interno del fronte repubblicano fra l’ala conservatrice e l’ala più reazionaria sostenuta da Bannon

Sta di fatto che se il candidato democratico Doug Jones ha vinto con un numero più basso dei voti democratici di sempre (671mila contro 751mila del 2008), Roy Moore ne ha portati a casa solo 650mila, esattamente la metà delle preferenze ottenute da Sessions nel 2008 (o da Trump nel 2016).

I democratici non hanno vinto per propri meriti, ma per l’astensionismo della metà degli elettori repubblicani. Il segnale sembra essere forte e chiaro. La destra si è spaccata proprio a metà sul crinale che divide i conservatori dell'establishment repubblicano da quei radicali populisti che non esitano a sventolare bandiere con la croce uncinata.

La "questione Alabama" potrebbe quindi essere un segnale di grossi problemi di tenuta del Partito Repubblicano con possibili ricadute sulla politica nazionale.

A cui si aggiungono altri segnali come la vistosa perdita perdita di popolarità di Donald Trump «crollata al 38%: mai così bassa per un presidente degli Stati Uniti in epoca moderna. Dopo nove mesi di mandato George W. Bush era all'88%, Barack Obama al 51% e Bill Clinton al 47%».

Non è quindi cervellotico fare un nesso tra il crollo di fiducia degli americani e la sua tendenza a esternazioni clamorose (o quantomeno poco diplomatiche) come quella su Gerusalemme.

Se la sconfitta in Alabama sarà dipesa solo da fattori contingenti o il segno di una spaccatura davvero profonda dell’elettorato conservatore americano lo vedremo alle elezioni di mid-term del prossimo novembre. Un anno in cui The Donald di sicuro non si (e ci) farà mancare nulla.

 

 

 

 

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