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Padellaro: “Il giornalismo partecipativo è il futuro”. Intervista al direttore de Il Fatto

Antonio Padellaro racconta ad AgoraVox il primo anno di vita de Il Fatto Quotidiano: il successo, le inchieste e le intimidazioni. Parlando del citizen journalism dice: “Il giornalismo partecipativo è il futuro, ma c’è bisogno di una redazione che renda pubblicabili le notizie”.

Il Fatto Quotidiano è il caso editoriale dell’anno. Antonio Padellaro, il direttore, lo ha fondato la scorsa estate insieme ad altri giornalisti. La proprietà editoriale distribuita tra gli stessi giornalisti e piccoli editori puri (Chiarelettere e Aliberti) garantisce libertà assoluta alla redazione. Ancora prima di uscire in edicola con il primo numero, più di trentamila lettori si erano abbonati al giornale sulla fiducia e oggi il direttore Padellaro è entusiasta: «Abbiamo superato qualsiasi previsione. Siamo partiti da un’ipotesi di 15mila copie e tra abbonimenti e venduto in edicola siamo sempre oltre le 100mila copie, 110mila copie. Dal punto di vista dei lettori è stato assolutamente straordinario. Il giornale si è imposto ormai».

Più il successo del sito web diretto da Peter Gomez…

«Il sito web di Gomez sta facendo veramente benissimo e poi con una formula innovativa che è quella di essere il paniere di centinaia di blog: adesso sono 170 ma possono diventare molti di più. È un’esperienza che non esiste in Italia. Anche su questo siamo all’avanguardia».

Nel suo editoriale sul primo numero del Fatto lei ha scritto: “La nostra linea politica sarà la Costituzione”. Ci siete riusciti?

«Assolutamente sì. Ci siamo sempre attenuti alla Costituzione. Poi possiamo anche averlo fatto male, ma nelle nostre opinioni noi non diciamo mai “ha ragione il tal partito” o “ha torto il talaltro partito”: noi abbiamo come bussola le regole di una democrazia liberale. Il problema dell’informazione in Italia è che non viene rispettato l’articolo 21 della Costituzione».

In Italia è più difficile trovare le notizie o riuscire a raccontarle?

«Credo che sia più difficile trovare le notizie, ma poi molti che trovano le notizie non riescono a raccontarle come vorrebbero e questo ha tolto l’abitudine a cercare le notizie. Se il giornalista deve fare due sforzi, trovare la notizie e poi combattere per farle pubblicare perché le direzioni, le proprietà sono contrarie, allora si finisce fatalmente a rassegnarsi a fare quello che passa il convento».

Voi avete strappato molti validi cronisti agli altri giornali, a cui avete iniziato a fare anche una concorrenza spietata sul web. Avete subito tentativi di boicottaggio dalle altre testate?

«No, non c’è boicottaggio. In genere i giornali della destra berlusconiana parlano male di noi mentre quelli del centrosinistra preferiscono non parlare di noi. Non ci citano nemmeno, ma a noi non interessa».

Peter Gomez ha raccontato che alcuni vostri blogger sono stati minacciati di non poter più scrivere su giornali della concorrenza se avessero continuato a tenere il loro blog sul vostro sito.

«Non lo sapevo...»

Lo ha raccontato Gomez sul vostro sito…

«Lo apprendo adesso. Non sapevo che ci fosse stata una minaccia così: evidentemente diamo fastidio. Però non ci preoccupiamo molto, andiamo avanti».

Anche se vi state iniziando ad allargare un po’ (da settembre ha iniziato a lavorare per voi Vittorio Malagutti, da l’Espresso), avete ancora dei grossi limiti, ad esempio nelle pagine di cronaca finanziaria ed estera.

«Be’, siamo un piccolo giornale: venti pagine, pochi giornalisti e poche risorse. È passato soltanto un anno dalla fondazione, che nella vita di un giornale è niente, nel bene e nel male. Aspettiamo…»

Tra i tanti scoop che avete fatto quest’anno, siete stati voi a raccontare per primi delle intercettazioni di Trani sulle pressioni di Berlusconi alla Rai per spegnere Annozero. Quanto è costata questa notizia al giornalista, Antonio Massari, che l’ha scoperta e raccontata sul Fatto?

«Antonio Massari è indagato, lo hanno perquisito dieci volte e gli hanno sequestrato il computer. È evidente che poi un giornalista si sente un po’ intimidito da tutte queste cose».

Direttore, è vero che lei è stato deferito all’Ordine dei Giornalisti da Augusto Minzolini?

«Sì, è vero. Sono stato deferito davanti ai probiviri dell’Ordine dei Giornalisti da Minzolini perché si è sentito diffamato. Ha detto che abbiamo dato un’informazione su di lui, proprio nell’ambito dell’inchiesta di Trani: era stato indagato per un reato e noi avevamo scritto che invece era indagato per un altro reato più grave. Poi abbiamo rettificato. Evidentemente ci sono anche delle piccole ritorsioni, delle piccole vendette: è accaduto anche questo. Mi dovrò difendere alla fine di ottobre e mi difenderò».

Vi accusano di essere giustizialisti.

«Bah… è un’espressione totalmente sbagliata perché il giustizialismo è un movimento peronista che non ha niente a che fare con quello che chiediamo noi: l’applicazione delle leggi fondamentali di questo paese».

Avete messo le manette in prima pagina!

«Sì, ci dicevano che eravamo manettari… è stato un modo per fare un po’ di autoironia. Noi non abbiamo paura delle manette. Io sono contrario alle manette, il problema è che i reati, quando riguardano certi noti personaggi, non vengono mai perseguiti».

Però siete fissati con Berlusconi.

«È il paese che è fissato su Berlusconi: continua a votarlo da quindici anni, vuol dire che un problema Berlusconi c’è. Non è mica un fantasma: è il presidente del Consiglio, l’uomo più potente e più ricco del paese. È inevitabile parlare di Berlusconi, sarebbe idiota non farlo. È come se chi fa la cronaca del calcio non parlasse dell’Inter».

Esisteranno, in Italia, mali peggiori di Berlusconi…

«Non penso che Berlusconi sia il male, assolutamente. Penso piuttosto che sia il simbolo di una malattia: un paese che non apprezza la democrazia appieno, forse perché nessuno glielo ha insegnato, e che si accontenta di essere rappresentato da personaggi di questo genere. La colpa non è di Berlusconi».

“Berlusconi è l'effetto, non la causa”, ha detto Grillo.

«Certo. Sono d’accordo».

Si dice sempre che in Italia i giornali fanno poche inchieste. Voi quanto investite nel giornalismo investigativo?


«Investiamo le nostre migliori energie. Sono venuti nel nostro giornale una serie di firme da l’Espresso, da Il Giornale, da La Stampa… e sono venuti a lavorare con noi perché volevano fare inchiesta. Sanno che non possono chiedere troppo in fatto di retribuzione, ma rappresentano un impegno maggiore del giornale per farli lavorare al meglio».

I giornalisti che lavorano in altri giornali invidiano la vostra libertà assoluta?

«Io ricevo qualche volta una richiesta strana: ‘Io questo pezzo’, mi dice il collega illustre, ‘non lo posso pubblicare sul mio giornale. Pubblicatelo voi con un’altra firma’. Questo è il segno che negli altri giornali qualcosa non va se queste brave penne hanno bisogno di pubblicare da noi quello che non possono pubblicare nel loro giornale».

Il giornalismo partecipativo che contributo può dare all’informazione?

«Il giornalismo partecipativo in Italia non è molto conosciuto. Io penso che sia il futuro. Io vedo un futuro in cui i giornali sono fatti soprattutto di notizie che arrivano dai lettori, dai cittadini e che poi una redazione provvede a rendere pubblicabili. Il problema delle fonti è un grande problema dell’informazione italiana: le fonti sono quasi sempre quelle ufficiali. Bisogna allargare la possibilità di raccogliere notizie a chi vive la realtà. Oggi l’unica forma di giornalismo partecipativo presente nei giornali è la rubrica delle lettere. Un po’ poco, no?»


ARCHIVIO: Il primo numero del Fatto. Tutto esaurito in edicola
 

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