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Morto Eco, chi ci salverà da Internet?

Inclassificabile Eco: è l’aggettivo che più fa onore al genio indiscusso del grande semiologo. La sua morte lascia un vuoto profondo nella cultura italiana e non. Nel suo ultimo discusso intervento, il professore ha messo in guardia contro gli imbecilli di internet: contro il rischio di parlare senza pensare.

Ironico, poliedrico, curioso di tutto, raffinato semiologo ma anche romanziere di successo, autore multitasking. Insomma: inclassificabile. In un mondo in cui la cultura da un lato si chiude in casellari predefiniti, sempre più specialistici, dall’altro si apre all’orizzonte generalista pressoché sconfinato di internet, “inclassificabile” è l’aggettivo che più fa onore al genio indiscusso di Umberto Eco, che ha attraversato tutta la storia di questi anni senza mai farsi travolgere dall’onda delle correnti alla moda. Imprevedibile Eco: lui che con il “Gruppo 63” decretò la morte del romanzo, è stato lo scrittore di romanzi divenuti best seller.

Romanzi? A saper ben leggere dentro le righe, Il nome della rosa, il suo più fortunato e noto romanzo, è uno sberleffo al romanzo tradizionale. Non lo risuscita ma lo rianima come una sorta di mostro di Frankestein: abilissimo collage di testi antichi e moderni, che Eco saccheggia con sapienza e monta con sublime abilità, nascondendo le cesure e le cicatrici. Si prende gioco del copyright (invenzione borghese che nulla ha a che fare con i diritti dell’autore, ma semmai con quelli economici dell’industria editoriale): utilizza la “tecnica del rampino”, già sperimentata nel Seicento da Giambattista Marino, e la contaminatio, eredità ancora più antica della commedia latina. Una letteratura del riciclo, quanto mai attuale, che con gli scarti del passato fa una cosa nuova. Interi passi copiati dai testi dell’amatissimo Medioevo: e sono i passi più emozionanti, come quelli che descrivono la passione travolgente di Adso.

Eco fa il verso alla cultura moderna, costruendo un romanzo postmoderno, un racconto patchwork, che ha diversi livelli di lettura, ma può benissimo esser letto come un buon godibilissimo giallo, che ammicca vistosamente e direi provocatoriamente ai romanzi di Conan Doyle. Ma è proprio questa la bellezza di un testo come Il nome della rosa: la decostruzione del romanzo tradizionale, in Eco è un atto d’amore per una cultura che non è più, ma che non possiamo per questo archiviare negli scaffali polverosi della storia come se non ci riguardasse affatto. Ché, se la facciamo interagire con il nostro turbolento ma anche sciatto presente, è capace di produrre insperati cortocircuiti e di riaccendere la luce della conoscenza. Questo spiega perché la curiositas di Eco spaziasse dalla sottili quaestiones di Tommaso d’Aquino, ai quiz nazional popolari di Mike Bongiorno, senza sentire imbarazzo alcuno per queste indebite commistioni.

Eco amava starsene in trincea, non nelle retroguardie ad attendere gli eventi. L’ultima sua battaglia è stata contro la stupidità imperante sui social. Molti, gli stessi che ora post mortem ne tessono l’elogio, lo hanno rimbrottato accusandolo di supponenza: «Chi sei tu per dire chi può scrivere o non sui social?».

Ma Eco, che non ha mai demonizzato nessuno, né tantomeno i social (lui grande esperto di comunicazione che con le nuove tecnologie ci giocava e che metteva sullo stesso piano e faceva interagire la Summa del Doctor Angelicus con la TV dei quiz), poneva semmai un problema, il problema: internet è un oceano in cui per navigare ci vuole una bussola. Altrimenti annaspi. Una questione di enorme portata per la sussistenza della stessa democrazia: nel mare magnum della rete, se non si ha lo strumento critico per filtrare le fonti, incontrollate e incontrollabili a monte, ma solo verificabili a valle, si rischia l'invasione degli imbecilli, il pensiero gelatinoso e informe della “ggente”: chiunque pensa di aver diritto di parola, senza prima porsi il problema di avere qualcosa da dire. Ed hai qualcosa da dire solo se hai qualcosa di pensato, meditato, ruminato.

Ecco: il pensiero, questo sconosciuto, quel cogito ergo sum della grande tradizione umanista, sempre più marginalizzata nella scuola italiana, un tempo baluardo di una tradizione millenaria, oggi assoggettata supinamente alle sirene della modernità, con la colpevole approvazione di pseudo pedagogisti da strapazzo che si affannano a rincorrere le mode correnti. Ma una scuola, che punta tutto sulle competenze e ritiene trascurabili le conoscenze, ti insegna a saper fare, non a sapere. Know-how: se lo dici in inglese appare più chic. E chiedersi a cosa e, soprattutto, a chi serva tutto questo saper fare è una domanda impertinente e stravagante, che non ha cittadinanza alcuna nella moderna scuola azienda.

Le tre “I” di berlusconiana memoria - inglese, impresa, internet - nella “Buona scuola” di Renzi non sono state affatto abbandonate al loro misero e mediocre destino. Il mito di internet persiste immutato: invece di un approccio critico – quello che Eco suggerisce – ci si cala le braghe davanti all’impero della rete. Digitalizzare la scuola, l’imperativo categorico. Nei programmi scolastici si propone e quasi si impone il “pensiero computazionale".

Avete capito bene: insegnare ai nostri ragazzi a pensare come un computer. Un computer - si sa – non pensa, esegue ordini. Appunto.

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