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M5S, prove tecniche di Forza Italia. Viaggio nell’ultimo partito stalinista dell’Europa occidentale

Non ho nessuna difficoltà a riconoscere che, nel malaffare e nel consociativismo dilagante nei partiti tradizionali, le migliori intenzioni e le speranze di molti militanti nel M5S non siano del tutto mal riposte. Di più, non faccio nemmeno fatica ad ammettere come, se l’alternativa è l’astensione, mettere una croce sul M5S rappresenti un’alternativa senz’altro migliore. 

 

La “rottamazione” di Renzi, poi, almeno a Sud, non si è mai vista, ma si è preferito affidarsi all’usato sicuro, ai capibastone forti di estese reti clientelari in totale continuità col passato. Credo anche che, in tante regioni e amministrazioni locali, i rappresentanti pentastellati si stiano muovendo bene: in Basilicata, ad esempio, gli eletti grillini rappresentano oggi l’unica vera opposizione al sistema di potere creato dall’ENI. Queste le doverose premesse.

Vorrei però, partendo dalla cronaca recente, entrare nel tema del mio articolo e rilevare alcuni questioni aperte nel M5S che ritengo nient’affatto marginali: intanto, a molti dei sostenitori dell’“uno vale uno”, cavallo di battaglia del Movimento, non fa nessuna specie che alla morte del fondatore e ideologo del Movimento il suo ruolo viene ereditato dal maggiore azionista della Casaleggio e associati, il figlio Davide. La cosa non solo non ha destato alcuna levata di scudi nei cinquestelle, ma nemmeno un sia pur minimo dibattito interno. Pensavo che, scottati dai precedenti, un partito azienda ci fosse bastato, ma si direbbe di no. La concezione proprietaria della politica in questo paese sembra essere dura a morire.

Giusto un inciso: la detta società, proprietaria del blog e della piattaforma Rousseau tanto cara a Casaleggio padre (per la democrazia diretta, pare), è stata di recente in trattative per l’acquisto del quotidiano online Lettera 43, transazione non andata in porto, credo, dato che la linea editoriale abbastanza critica del quotidiano si direbbe non essere cambiata. Entrando nel merito del titolo dell’articolo che, si sa, è per definizione provocatorio, le analogie con Forza Italia non sembrano purtroppo finire qui. Ancora a proposito della presunta democrazia della rete, chi decide i temi sui quali i militanti iscritti al blog sono chiamati a esprimersi? Gli eletti? No. I militanti? Nemmeno.

La Casaleggio e associati e Grillo? Chi ha nominato i tre esponenti del Direttorio? Grillo, fino a ieri proprietario del simbolo, senza sentire nessuno. Data la scelta del nome di questo nuovo triumvirato, nel frattempo depotenziato dopo alcune infelici uscite di Di Maio che, ricordo, tra l’altro, ha attribuito Pinochet al Venezuela (come se il Venezuela non avesse avuto e abbia ancora tanti problemi di suo), è inevitabile pensare alla Francia, ma a un periodo diverso e a un altro Bonaparte.

 Napoleone terzo, protagonista di alcune delle pagine non più belle della storia transalpina, che pure chiamava periodicamente i francesi a ratificare, tramite referendum, decisioni già prese. Da lui e i suoi, nella fattispecie. Salvando le apparenze (nel caso specifico, conservando quindi il Parlamento, sia pur svuotato di ogni reale potere) e così tranquillizzando possibili timori di un elettorato anestetizzato e, in questa parodia di democrazia, dandogli la falsa impressione di conservare un qualche sia pur minimo potere decisionale. Non diversamente appunto da quello che avviene ora nel partito M5S. Perché avranno pure un “non statuto”, ma sono un partito. Chiamiamo le cose con il loro nome. Che non era uno statuto, del resto, ce ne eravamo accorti da soli, visto che anche quando gli iscritti al blog sono chiamati a votare, pur in caso di mancato raggiungimento del quorum, se a Grillo va, la “decisione del popolo della rete”, resta valida. Credo quindi che non siamo dinanzi a qualcosa di totalmente nuovo: il bonapartismo era già per tanti versi un’attualizzazione del cosiddetto cesarismo. Il Senato rimane formalmente in piedi, ma le decisioni le prende Cesare.

Mi si obietterà, anche giustamente, che la mia è una semplificazione eccessiva e il paragone, mi rendo perfettamente conto, almeno azzardato, poiché, nei casi sopra richiamati, si tratta di uno svuotamento, de facto, degli organi della democrazia rappresentativa, mentre, in questo più recente, fortunatamente, solo degli organi interni al partito. Obiezione accolta, ma solo fino a un certo punto, dato che già oggi, gli eletti pentastellati firmano un contratto con una società (a questo punto è inutile che dica quale), che prevede pesanti penali in caso di cambio di partito. Cosa che sarà, e spesso lo è, pure esecrabile, essendo questi passaggi spesso mossi da meri interessi personali, ma in aperto dissenso dal dettato costituzionale. Semplificando ancora, il parlamentare infatti, secondo la Carta, è eletto dal popolo e il suo voto non è condizionato dalla disciplina di partito. In nome, si badi, del superiore interesse della Repubblica rispetto a quello dei partiti o di altri possibili portatori di interessi specifici.

 Si tratta di una cosa estremamente pericolosa che, evidentemente, non sfuggiva ai nostri lungimiranti costituenti, tanti dei quali avevano conosciuto e pagato in prima persona il Fascismo e, nello scrivere la Costituzione, pensavano in ogni modo a evitare che il Paese potesse riprecipitarvi. Grillo però non è un dittatore e forse nemmeno un aspirante tale, ma è animato dallo stesso egocentrismo e megalomania di tanti di questi. Pur non avendo in materia alcuna competenza specifica, nella mia esperienza, almeno in politica, queste patologie si accompagnano alla scelta di collaboratori che non fanno ombra, nella tendenza a circondarsi di gente selezionata non in base alla capacità o alla professionalità, ma il cui unico merito è di essere d’accordo, a prescindere, con le opinione del capo. Quali che siano. Il danno in questo senso causato dalla classe politica che Berlusconi ha fatto scendere in campo è devastante e la pagheremo per i prossimi vent’anni almeno. La cosa però ha anche aspetti positivi, dato che le dittature, anche in conseguenza di ciò, in genere non durano troppo a lungo e fanno una brutta, a volte bruttissima, fine.

 La mancanza di ogni minimo spirito critico, di ogni autonomia di giudizio nei rappresentanti dei cinquestelle, che sia mossa da mero opportunismo, come credo, o da limiti oggettivi della persona, fa davvero cadere le braccia. Del resto, chi si permette di muovere anche solo una garbata critica delle scelte di Grillo o Casaleggio, come nel caso di Pizzarotti, è emarginato, lapidato e buttato fuori. Cosa che fa del M5S l’ultimo partito genuinamente stalinista dell’Europa occidentale.

Credo quindi che chi sia in cerca di possibili analogie in altri paesi sbagli a guardare alla Spagna di Podemos. Il totale allineamento con le posizioni dei danti causa ha anche recentemente portato a girandole di dichiarazioni esilaranti, come nel caso di Di Maio che, sulle unioni civili, ricevuta una telefonata da Grillo, in mezz’ora si è reso protagonista di una spericolata inversione a U, rispetto a quanto dichiarato ai giornalisti appena prima. Prendendo a pretesto della mancata presenza nel ddl della stepchild adoption, si vota contro un provvedimento sino ad allora sostenuto e che, comunque, rappresentava un importante passo avanti per l’Italia. Impossibile non pensare al Bondi della prima ora che non si vergognava, lui però sinceramente innamorato di Silvio, di dedicargli poesie di amore. Amore vero.

 Una scelta, quella di Di Maio & c., improntata al peggiore cinismo della peggiore partitocrazia, in cui, pur di mettere in difficoltà l’esecutivo, si vota contro un provvedimento che si è appoggiato appena prima. Ancora in tema di cinismo, non posso non ricordare l’apertura di Grillo ai voti dei neofascisti di Forza Nuova di qualche tempo fa. Nessun voto fa quindi schifo, pare, ai vertici del Movimento, nemmeno quelli dichiaratamente razzisti o nostalgici della pagina più nera della storia del Paese. Sulla caratterizzazione politica del M5S spenderò qualche parola in chiusura, a proposito del caso romano e della giunta Raggi. Vorrei qui rimanere sul direttorio, e su di Di Maio, aspirante premier, Grillo permettendo, ovviamente.

  Luigi Di Maio, 29 anni, figlio di un politico missino, look alla promotore finanziario Mediolanum, lontano, pare, dalla laurea. La qual cosa, ovviamente, non gli impedisce certo di pontificare ogni giorno di riforme istituzionali, replicare a costituzionalisti schierati per il Sì, con quella sicumera che oggi chiameremmo renziana. Professione prima di entrare in politica, webmaster. Non tra i migliori, visto che questa attività non sembra aver lasciato quasi alcuna traccia in dichiarazione dei redditi. Altre esperienze lavorative prima di entrare in politica, steward al San Paolo di Napoli. Settore VIP però. Classico bravo ragazzo, faccia pulita, Di Maio si presenta bene, incarnato un po’ abbronzato, mai un capello fuori posto. E’ il genere di ragazzo che se esce con tua figlia te la riporta a casa come gliel’hai lasciata e che se si vede con la tua ragazza non sei geloso. Sorride quasi sempre. Un po’ meno però da quando, sul cosiddetto mailgate, è stato sbugiardato, vittima di fuoco amico. Dell’affaire firme false in Sicilia, di cui i vertici erano da tempo al corrente, preferisco qui non parlare. Mi limito a rilevare come essi siano intervenuti solo dopo che la cosa era diventata di pubblico dominio, a causa dell’inchiesta della Procura.

 Di Battista, storia quasi sovrapponibile. Solo un po’ più belloccio. Lui pure studente fuoricorso, nessuna vera esperienza lavorativa e, prima della folgorazione grillina, zero redditi in dichiarazione. Ma questo, si sa, non è tanto una colpa, semmai un problema generazionale. Anche Dibba, come lo chiamano i suoi fans, non sembra avere nessuna competenza specifica. Ciò non gli impedisce certo di essere sempre in tv con la stessa sicurezza del collega nell’affrontare temi che vanno dalla geopolitica alla pulizia dei giardinetti dietro casa. Stessa smodata ambizione, indignato di professione, forse per contratto. Chiude quasi tutti i suoi interventi alla Camera sbattendo il microfono, tra gli scroscianti e osannanti applausi dei suoi. L’Aula sarà pura sorda e grigia, ma non è, non ancora almeno, un bivacco, e i manipoli grillini sono pronti e reattivi nel fare scattare l’applauso al momento giusto e favore di telecamera. Posta i video dei suoi interventi sui social network e raccoglie migliaia di like. Col senno di poi, mi chiedo davvero se non avesse ragione Eco a proposito delle schiere di imbecilli cui i social avrebbero dato un megafono. Anni a sentire Grillo ripetere che anche una massaia può fare il Ministro dell’Economia e questi sono i risultati.

 Gli Italiani fanno la fila per sentirlo parlare di Costituzione, lui che, stando ai suoi anche recenti scivoloni sul tema, ho forti dubbi che passerebbe un esame di Diritto Costituzionale, materia notoriamente complessa. Dilettanti allo sbaraglio, gente nemmeno ferrata in economia domestica che si cimenta e parla con una sicurezza che spaventa di temi di economia politica senza mai un dubbio, un “credo”, un “secondo me” o anche solo un “forse”. Non che la cosa riguardi solo i cinquestelle, intendiamoci. Ma torniamo a Grillo. Come comico è da sempre tra i miei preferiti in assoluto e quando viene nella mia città lo ascolto sempre con piacere. Tra tanti comici, spesso inconsapevoli, che affollano la vita politica nostrana, emerge per il suo straordinario talento. Ma quando, ad esempio, un uomo nella sua posizione, afferma, come ho sentito con le mie orecchie, che le merci non dovrebbero muoversi, in un paese che ha tra i più alti tassi di export pro capite al mondo, un mercato interno asfittico, in cui il potere d’acquisto delle famiglie è in caduta libera da decenni, e che se non è ancora fallito in questi anni è solo per l’export, posso preoccuparmi? Posso chiedermi: ma qui è l’uomo politico o il comico che parla?

 C’è di che essere preoccupati, qui si scherza col fuoco. Chi è questo tipo che per loro conto pare abbia incontrato e forse tranquillizzato rappresentanti di alcuni fondi di investimento statunitensi? I cinquestelle hanno un responsabile economico? Se sì, chi è veramente? Come lo ha selezionato Grillo? O è stato Casaleggio? Casaleggio figlio o padre? E’ veramente un esperto di economia domestica? Sul serio adesso, non è che a furia di reiterare sciocchezze che chiunque può fare qualsiasi cosa, gli italiani abbiano finito per crederci? Tanti però nel M5S qualche studio ce l’hanno davvero: Virginia Raggi ad esempio: pratica nello studio Sammarco, associato e difensore di Cesare Previti (sì, quel Previti, già ministro del Governo Berlusconi, titolare di uno di quegli studi romani destrorsi in cui non si accede senza qualche entratura), e consulenze, non dichiarate in campagna elettorale, prese dalle ASL del Lazio senza essere nei relativi albi. Non c’è bisogno di essere romani per sapere che non si può lavorare nella sanità laziale senza santi in paradiso. E’ una barzelletta che non fa ridere nessuno, men che meno i tanti giovani avvocati italiani, anche molto bravi, sottopagati, se non alla fame.

 Come capo di gabinetto della Giunta Raggi, si era fatto a lungo il nome del compagno, prima di fare, opportunamente, marcia indietro. Da subito, per la scelta degli assessori e dello staff della sindaca, son circolati tanti nomi che rimandano alla giunta Alemanno, protagonista della peggiore pagina della storia amministrativa romana, e non era facile, visti i disastrosi precedenti recenti, anche del centrosinistra. Si, quell’Alemanno, Gianni. Gianni Alemanno, l’ex missino, genero di Rauti, più volte ministro e già capo della peggiore destra all’amatriciana romana. Tanti nomi dell’entourage della Raggi compaiono nelle inchieste giudiziarie di Mafia Capitale. Alcuni con uno sponsor (lo studio Sammarco, come venuto fuori in un caso), altri senza. Troppi di questi però fanno riferimento a una precisa area politica. Davvero nessun altro se non la Muraro poteva occuparsi dell’emergenza rifiuti a Roma?

 Tutti innocenti fino a prova contraria, sia chiaro. Però da un alto c’è la verità giudiziaria, dall’altro il principio di precauzione, per cui gente con un passato non proprioo cristallino dovrebbe essere tenuta lontana dalle istituzioni e dalla cosa pubblica. In attesa della verità giudiziaria, da subito, sulla base di quanto già emerso della citata inchiesta su vari giornali, possiamo farci da subito delle opinioni: dalle carte apparse sulla stampa e come emerso dalle intercettazioni, la Muraro sembrava rappresentare in AMA (la municipalizzata romana impegnata nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti) gli interessi di Cerroni, il potentissimo proprietario di Malagrotta, l’uomo per cui, stando a quello che si dice a Roma, la raccolta differenziata nella Capitale è a livello vergognosi. Sia chiaro, il problema non nasce certo con la Raggi. Ma la discontinuità amministrativa col passato promessa in campagna elettorale?

 Per quanto mi riguarda, non ho bisogno di attendere una sentenza per ritenere che una consulente che ha avuto, in maniera assolutamente trasversale, una posizione chiave in azienda con almeno le ultime tre amministrazioni romane, non dovrebbe avere alcun incarico. In nessuna giunta di nessun colore politico. Specie se, mentre lavoravi per AMA, hai preso consulenze molto ben retribuite per aziende che lavoravano per AMA, in palese conflitto di interessi, a voler essere buoni. La cosa è persino più grave poi se si è parte di una giunta espressione di un movimento che ha fatto della trasparenza e dell’onestà il suo forse unico cavallo di battaglia. Onestà appunto, o honestà come in una delle tante godibilissime pagina facebook (“Siamo la gente, il potere ci temono” o “protesi di complotto”) che spesso irridono alcuni cinquestelle dall’italiano claudicante e altri simpatici “gentisti” come terrapiattisti, nuovoordinemondialisti, anti “scie chimiche”, anti vaccininisti e “gomblottisti” di ogni risma che credono che la finanza ebraica governi il mondo e che, appunto, vedono complotti dappertutto.

 Gente che crede in unguenti magici che curano il tumore, di cui, inevitabilmente, Big Pharma ci tiene all’oscuro, e che, per nostra fortuna, tiene a farcelo sapere ripostando senza sosta qualsiasi idiozia trovata in rete. Come se le industrie farmaceutiche non ne facessero davvero già tante di loro. Questo l’aspetto esilarante. Peccato però che, a volte, questa varia umanità, virtuale ma così drammaticamente reale, finisca per credere a tal punto in tali sciocchezze da rifiutare la chemio per tipi di tumori altrimenti curabilissimi e morire davvero, come in alcuni casi di cronaca anche recente.

 Tornando al merito dell’articolo, più passa il tempo e più trovo conferma in quello che mi era sembrato da subito e che a giudicare dalla Raggi appare adesso difficilmente contestabile rispetto alla caratterizzazione ideologica del M5S. Altro che “né di destra né di sinistra, in alto”, come dicevano un tempo a ogni piè sospinto. Piaccia o no, dall’ “Uomo qualunque” di Giannini in giù, dietro i populismi si nasconde la peggiore destra. Il M5S non sembra fare eccezione: anche la corsa così provinciale a intestarsi la vittoria di Trump, cui non poteva non iscriversi Salvini e a cui non si è sottratto lo stesso Grillo (“È stato un vaffa gigantesco a tutto il mondo dell'informazione, dei sondaggi, degli intellettuali: un mondo che non esiste più”) va in questo senso. Questo dovrebbe allarmare in un paese in cui, anche senza la storia dell’Italia, una foto con un Parlamento in fiamme o buttato a terra da una ruspa raccoglie decine di migliaia di like. Non che l’antipolitica non abbia le sue ragioni e i che i nostri rappresentanti non abbiano fatto niente per meritare l’odio dei rappresentati, ma questi sentimenti, se indirizzati contro le istituzioni democratiche diventano estremamente pericolosi.

 E le generalizzazioni, oltre ad allontanare dalla politica gente animata dalle migliori intenzioni, nuocciono soprattutto a quanti tra gli eletti, e ce ne sono, sono degnissime persone. L’odio neanche velato, ma spesso esplicito, per i “professoroni”, come li chiamano loro, o i senatori a vita, si inquadra in quest’ottica. Molto più rassicurante gente semplice che esprime idee semplici in un linguaggio semplice. Basta un congiuntivo o un pensiero appena più complesso o articolato e si viene tacciati di parlare “politichese”. Quanto ai costi della politica, raccoglierà anche meno consensi della Raggi che taglia la carta di credito del Comune, ma il provvedimento di Padoan sulle municipalizzate (8.000 in Italia che rappresentano la gigantesca mangiatoia dei politici, il pozzo senza fondo dei conti pubblici e la cinta di trasmissione del potere clientelare della peggiore partitocrazia, con conseguenze dirette sui metodi di elezione della classe politica) passa inosservata nonostante, tra accorpamenti, imposizione di un amministratore unico, chiusure di quelle strutturalmente in perdita, questa si traduca in decine di migliaia di posti in meno nei CDA delle stesse.

 Tutti, evidentemente, assegnati a politici trombati (mi si passi il francesismo) e in cui c’è posto solo per gli amici degli amici. I servizi andranno a bando, con gara pubblica e trasparente. Anche chi, come chi scrive, a ideologicamente è per il mantenimento del carattere pubblico di certi servizi di base (l’acqua in primis), guardare a come siano state e siano tutt’ora gestite queste aziende (assoluta mancanza di trasparenza, chiamata diretta nelle assunzioni e via dicendo) le rende oggettivamente indifendibili. Numeri simili per la riforma delle BCC. Ancora sui costi della politica, agli smemorati, mi permetto di ricordare come la non gratuità degli incarichi politici, come avveniva in passato, ha permesso ai non abbienti di affacciarsi alla vita politica. La gratuità delle cariche, unita a un suffragio ristretto basato su censo e istruzione ha fatto sì che, ad esempio, il primo parlamento italiano fosse pieno zeppo di esponenti di industriali, finanzieri, grandi professionisti, mentre tantissimi erano gli aristocratici, blasonati parassiti, eletti in rappresentanza (si fa per dire) del Mezzogiorno. Alle origini della Questione meridionale

 Per concludere, mentre non sono rimasto affatto sorpreso dalle periodiche aperture di Salvini pro M5S, non posso non notare che molti ex militanti forzisti siano passati in massa tra le fila dei grillini e mi limito a ribadire come, dal qualunquismo di Giannini (poi parzialmente confluito nel MSI) alla più recente Lega (anch’essa, alle origini, “né di desta, né di sinistra”), in Italia il populismo antistituzionale abbia prima o poi sempre svelato la sua vera natura: di destra, e della peggiore. Per quanto mi riguarda, ritengo ancora valido l’adagio per cui quando si dice che non si è né di destra né di sinistra, in realtà si sia già di destra. Più o meno inconsapevolmente, ma sempre. Senza però nemmeno il coraggio di affermarlo.

 Sulla democrazia interna, infine, il fatto che il simbolo non sia più di Grillo, che sin qui lo ha negato o graziosamente concesso (octroyé come ai tempi dei Re per grazia di Dio) secondo i cangianti umori o interessi del Sovrano, rappresenta un passo avanti, ma molto resta da fare, specie sulla trasparenza del blog. La speranza è che seguano altri passi in questa direzione. Ma di buone intenzione, si sa, sono lastricate le vie dell’Inferno. E molto resta ancora da fare. Quanto ai Di Maio ai Di Battista e agli altri, mi limito in chiusura a far notare come da molto tempo ormai tra i Cinquestelle non si parli più di uno dei punti più qualificanti della propaganda del M5S e tra i pochi che mi vedono d’accordo, il limite di mandati (due legislature, dicevano un tempo), e a pormi una domanda: davvero tra qualche anno Di Maio, Di Battista e gli altri si ritireranno a vita privata?

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