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"Ostalgie" canaglia. Come la Germania sta distruggendo l’Europa unita

La Germania? Meglio divisa.

Da lungo tempo ormai si parla, non sempre a proposito, di modello tedesco: dalla responsabilizzazione dei sindacati nella cogestione delle aziende fino alle riforme, in gran parte eredità della Grosse Koalition CDU-SPD, che gli addetti ai lavori considerano all’origine delle recenti performance economiche. Sempre positive anche all’apice della crisi.

L’immagine di una Germania che si erge forte sulle macerie ancora fumanti dei vicini può forse aiutarci a trovare una spiegazione non troppo semplificata o piegata, come sempre nel Belpaese, alle ragioni della quotidiana polemica politica. Ma forse non è solo nelle mere ragioni economiche che va cercata l’origine di questa nuova Germania senza complessi, egoista senza vergogna e tanto sicura di sé da rinunciare, dopo l’elezione di Hollande, anche al tradizionale motore franco-tedesco. Niente di più lontano dalla Bonner Republik che, altrettanto se non più ricca dell’attuale, sembrava quasi scusarsi della sua forza, tenendo, politicamente, un profilo oltremodo basso, sempre cercando, in Europa, una direzione collegiale o almeno una sponda oltre il Reno.

Le classe dirigenti di allora, tedesche e non, avendo conosciuto la guerra, sembravano avere ben chiaro il valore anche pacificatore di un’Europa unita. Avevano una visione di un futuro di benessere condiviso, niente di più lontano da questa Germania che non sembra vedere nell’Europa nient’altro che il suo spazio economico: l’area del marco di un tempo, sia pure allargata. La moneta unica, peraltro, rappresenta parte del problema e, in mancanza di un maggiore coordinamento delle politiche economiche dei singoli paesi, una follia. E almeno prematura per paesi come l’Italia, abituata a far fronte ai problemi di competitività svalutando la moneta e drogando l’export.

La lira debole ti permetteva di tirare a campare, rimandando i problemi, un euro che somiglia sempre più al marco ti responsabilizza, costringendoti a intervenire con riforme strutturali sul modello, manco a dirlo, della Germania. La cui forza, però, potrebbe essere minore di quanto non appaia di primo acchito: molti dei nuovi posti sono, in effetti, minijob, part-time e a tempo determinato che non solo non si sono trasformati in full-time e a tempo indeterminato, come negli auspici dell’esecutivo, ma rischiano di aprire una voragine nei conti previdenziali tedeschi.

La crescente precarizzazione del lavoro, poi, se ha alimentato nei lander dell’ex DDR l’Ostalgie (la nostalgia del Muro e della Germania divisa), non diversamente, per inciso, da quanto sta succedendo, per motivi diversi, in molte cancellerie europee, ha raggiunto livelli sin qui ignoti anche nell’Ovest. Non bastasse, i bassi tassi di rifinanziamento di cui la Germania ha sin qui goduto, negativi, al di sotto, quindi, dell’inflazione, dovrebbero rientrare entro parametri più normali, con il progressivo restringimento dello spread tra i paesi colpiti dalla crisi e, appunto, Berlino, che ha beneficiato, anche oltre il lecito, del flight to quality. Termine che si traduce in italiano con fuga degli investitori dai debiti pubblici dei paesi che abbiamo appreso essere periferici. Rispetto a Berlino, evidentemente. Si è trattato di un gigantesco drenaggio di capitali dalle aree più povere d’Europa a vantaggio di quelle più ricche, Germania in primis. Il che farebbe della Merkel non la salvatrice dell’euro, ma una specie di Robin Hood. Solo al contrario.

A chi è davvero sfuggito il gioco delle parti tedesco? Chi ha almeno pescato nel torbido con le dichiarazioni ora dell’arcigno Sheuble, il custode della stabilità tedesca, ora dell’anti-Draghi e garante dell’ortodossia monetaria e della lotta all’inflazione (uno spauracchio, evidentemente, ma la Germania non ha mai superato Weimar) Weidmann, mentre la Merkel e il rappresentante teutonico nella BCE Asmussen appoggiavano la linea del Presidente della BCE? Ogni volta che questi figuri si avvicinavano ai microfoni o ai taccuini di cronisti e le agenzie ne rilanciavano dichiarazioni, costavano a noi e ai nostri fratelli di sventura PIGS (maiali, ndr) centinaia di milioni. Di euro, mica di lire o di pesetas.

Senza alcun complesso di colpa, quindi, gli sbirri buoni e quelli cattivi hanno perseguito questa politica del Mors tua vita mea, salvo poi presentarsi come i donatori di sangue del Club Med, come il Sud Europa è chiamato nella finanza internazionale. Niente di più falso: i prestiti del salvataggio della Grecia prevedevano tassi intorno al 5%, la Germania (che, si badi, non ha pagato un solo decimo in più della propria quota sul Pil dell’UE, non diversamente da qualsiasi altro paese della zona Euro, Italia inclusa) finanziava il proprio debito pubblico intorno al 2%, mentre l’Italia, contributore e non beneficiario dei vari salvataggi, ha pagato fino a oltre il 7%.

Non sorprende quindi che gli euroscettici dell'AFD non siano entrati nel Bundestag, visto che Berlino è stato il grande beneficiario dell’euro, anche nella Crisi dei Debiti Pubblici avvitatasi per la pessima gestione tedesca e per le posizioni degli attori di questa mediocre fiction girata tra Berlino e Francoforte. Il tasso di finanziamento dei debiti pubblici ha conseguenze dirette sul tasso di finanziamento delle imprese. Di qui un ulteriore vantaggio di cui hanno goduto le imprese tedesche rispetto a quelle della seconda economia manifatturiera d’Europa, ancora una volta l’Italia, tuttora prima per valore dell’export pro capite.

Siamo, si vede bene, ben oltre i limiti della concorrenza sleale. Specie se si consideri come l’aumento dell’interesse, che l’Italia ha dovuto riconoscere ai sottoscrittori dei suoi titoli, ha minato i fondamentali delle sue banche, i cui tassi applicati a loro volta alle imprese hanno causato un aumento dei fallimenti e delle sofferenze, in un circolo vizioso. Considerando infine come una parte rilevantissima del Debito pubblico greco fosse in mani francesi (la Francia, pure beneficiaria della fuga dai paesi periferici) e tedesche, appare chiaro come tra i maggiori danneggiati da un eventuale default greco ci fosse il sistema bancario tedesco. Che, nonostante la Bundesbank, riassume il peggio della finanza anglosassone (spericolate operazioni finanziarie, abuso di derivati e alto tasso di leveriging) e mediterranea (le banche regionali, le Landesbank, largamente in mano ai potentati politici locali).

È ben più di un sospetto, quindi, che si sia salvata non la Grecia, che, col senno di poi, probabilmente avrebbe fatto bene a dichiarare l’insolvenza, ammesso la bancarotta sia mai stata un’opzione consentita agli ellenici (che avevano truccato i conti pubblici, vale la pena ricordarlo), ma gli istituti di credito francesi e soprattutto tedeschi. Il caso della Commerzbank, la seconda banca privata tedesca salvata dal denaro dei contribuenti già all’inizio della crisi, ha mostrato la fragilità delle banche teutoniche e la carenza della vigilanza della Buba. La quale, tuttavia, si è a lungo opposta alla cessione della vigilanza delle banche di rilevanza sistemica (le too big to fail, ammesso che esistano ancora dopo Lehman) alla BCE.

A ragione l’elettore tedesco che, pur non decerebrato da Mediaset, è influenzato da una stampa popolare (Bild in testa) che perpetua, e non da oggi, i peggiori stereotipi, tra gli altri, su di noi (che comunque, da Berlusconi in giù, facciamo il nostro), descrivendoci sempre in spiaggia impegnati a spararci l’un l’altro (in pratica ci spareremmo da un ombrellone all’altro) l'elettore tedesco, dicevamo, ha premiato la Merkel. Proprio per la sua politica tanto favorevole alla Germania quanto dannosa per la parte più fragile del Continente e per l’ideale stesso di Europa.

 C’è da non credere che questa spietata signora dai tailleur pastello tutti uguali e così rassicuranti sia figlia, politicamente, di quel Kohl che, contro il parere di tutti e contro ogni evidenza economica, impose lo scambio 1 a 1 con la valuta della DDR. Scelta coraggiosa e a lungo termine premiante di un uomo di stato vero. La politica condotta dall’esecutivo Merkel, al contrario, ha alimentato un’insofferenza e un rancore crescenti dappertutto in Europa. Sbaglia chi crede di poter prosperare sulle disgrazie altrui. E tutte le volte che in passato un paese è divenuto tanto forte da rompere gli argini e tracimare sui suoi vicini (esondazione solo in senso figurato, economico, non bellico, per quanto, nell’uno e nell’altro campo i tedeschi, come è noto, non facciano prigionieri), la reazione è stata tale da rendere questi successi apparenti ed effimeri e il risentimento molto più duraturo. Se la Merkel è allora giustamente chiamata “la mammina” in Germania, altrettanto a ragione può essere considerata una matrigna per l’Europa, avendo imposto una linea lacrime e sangue di durissimo e cieco rigore che persino i falchi del FMI hanno riconosciuto essere stato eccessivo e controproducente.

Tutto questo è stato reso possibile anche per la mancanza di contrappesi esercitati dalla Francia (succube e al traino con Sarkozy di traverso, ma per ragioni di mera grandeur con Hollande, cui, comunque, manca la leadership) e, ancor più, da una latitante Inghilterra (con Cameron distratto e distante da Bruxelles, come sempre, del resto, coi Conservatori al Governo). Quel che però è certo è che nessun paese europeo vuole essere guidato da Berlino, come da nessun altro. In conclusione, se non vuole che a pagare un prezzo altissimo sia l’ideale di un continente di pace e prosperità, la classe politica tedesca, che pure in passato ha mostrato tanta lungimiranza, deve recuperare quella carica ideale di un tempo, adoperandosi per una guida condivisa, una soft leadership per l’Europa. O per quello che ne resta.

 

Foto: JPS2005/Flickr

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