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La ricerca sotto attacco: dati falsi e riviste taroccate. Come difendersi? Intanto la Cina...

Quale lingua parlerà la scienza del futuro? Quali minacce alla libertà della ricerca si profilano in rete? La posta in gioco è alta quando si tocca la ricerca, riguarda il nostro benessere, il nostro stile di vita, la nostra salute.

Un articolo apparso di recente sulla rivista Nature [n. 562, pag.471-472 (2018) PDF version], rivela che, in Cina, il governo sta lavorando ad una lista nera di riviste scientifiche, strettamente confidenziale, sulle quali i ricercatori cinesi non dovranno pubblicare. Va considerato che la gran parte delle riviste mondiali sono in inglese e che le case editrici della comunità scientifica sono occidentali, ovvero statunitensi ed europee. La comunità scientifica internazionale parla inglese. L’annuncio è stato fatto in Cina all’inizio dell’estate sembrerebbe, al fine garantire la qualità del pubblicato e l’integrità della scienza ma molti dubitano che sia così, non solo perché i criteri di selezione non sono affatto trasparenti ma soprattutto perché nulla trapela e tutto sembra essere avvolto da un riserbo eccezionale.

Non si può negare che il mercato editoriale delle riviste ad accesso aperto abbia subito la cattiva influenza dei cosiddetti predatory publishers, gli squali, ed effettivamente esistono riviste in rete che di rigoroso e di scientifico non hanno nulla. In realtà sono veri e propri “tarocchi”, dove si pubblica qualsiasi cosa senza nessun filtro. Non hanno nulla a che fare con le riviste ad accesso aperto "vere", di queste sfruttano il modello. Sono truffe. Contro questo fenomeno, purtroppo crescente, i ricercatori dispongono di tutti gli strumenti per selezionare le riviste dove pubblicare o da cui trarre le citazioni, sulla base di precisi standard, come sostengono gli esperti, i bibliotecari biomedici.

Smascherare i truffatori

I predatory publishers offrono siti con, periodici scientifici apparentemente seri, dalla veste grafica perfetta. Lucrano sulla richiesta di pubblicazione dei ricercatori. Spesso contattano direttamente l’autore, solleticandone l’orgoglio (detti anche vanity publisher). A volte richiedono al ricercatore un contributo per la revisione tra pari (peer review). Il ricercatore, oltre a inorgoglirsi, ne ricava un punto curricolare, così l’editore riesce a fregiarsi del bollino dell’Istituzione di appartenenza del revisore, per accreditarsi poi a chi pubblica, ovvero a chi paga.

Come scoprire la truffa? Vanno esaminati diversi criteri: rispetto codici di condotta dell’editore, sede della casa editrice e contatti, competenza e presenza di comitato editoriale, trasparenza e veridicità delle affermazioni sul sito, presenza e caratteristiche della revisione tra pari (peer-review), presenza del codice ISSN, Impact factor (verificato sull’unico sito JcR –Journal of Citation Reports e non semplicemente quello dichiarato) e, soprattutto, presenza nel DOAJ, il repertorio delle riviste ad accesso aperto internazionali accreditate. Esistono diversi siti che offrono sostegno professionale al ricercatore nella fase di pubblicazione come Why Open Research e Think. Check. Submit.

Verificare che i periodici di nostro interesse non siano nella LISTA NERA: la Beall’s black list.Gestita da Jeffrey Beall, bibliotecario alla University of Colorado e pubblicata sul suo blog “Scholarly Open Access: critical analysis of scholarly open-access publishing”, raccoglie un elenco di predatory publisher aggiornata al 2017. Scomparsa dalla rete e da facebook, oggi è disponibile solo in alcuni social professionali e nell’intenet archive; esistono copie salvate in pdf. La Beall’s black list è considerata dagli addetti ai lavori un punto di riferimento. Beall aveva ricevuto encomi ma anche critiche e pressioni, al punto che non se ne occupa più.

Organi del governo, come il Consiglio di Stato e il Partito Comunista Cinese, hanno annunciato un giro di vite sulla cattiva condotta scientifica per i numerosi casi registrati di (referaggio falso) fake peer reviews, plagio e uso di dati in modo fraudolento. L’incarico è stato conferito al Ministero della Scienza. Nel 2016, si è tentato di presentare una lista ma, poiché non si è raggiunto un accordo sugli standard e sui criteri di selezione, non è stata approvata. 

Nature afferma che in Cina stanno girando già diverse liste compilate autonomamente da istituzioni che inducono i ricercatori cinesi a evitare di pubblicare su determinate riviste. Per esempio, lo Zhongshan Ophthalmic Center della Sun Yat-sen University di Guangzhou ha diffuso un documento a gennaio per mettere in guardia i propri ricercatori, fornendo un elenco di riviste etichettate come "controverse" perché avrebbero presentato troppe ritrattazioni. Di fatto sembrano non vietare di pubblicare su queste riviste ad accesso aperto ma l’ente si astiene da utilizzare i propri fondi per sovvenzionare la pubblicazione degli articoli su queste riviste e lo scienziato che dovesse ignorare tale indicazioni e pubblicare lo stesso, non vedrà considerata l’articolo ai fini della propria valutazione curricolare o per richiedere fondi e finanziamenti per la propria ricerca. Ancora non è obbligatorio ma di fatto la pressione è notevole. I ricercatori cinesi sono scoraggiati a pubblicare in questo modalità, perciò viene da chiedersi che impatto avrà questo sul mercato editoriale, sulla libertà della scienza aperta, sul reale scambio internazionale? Pubblicherebbero ancora in inglese? Che ne sarà degli scambi internazionali? Si creeranno fronti di ricerca impermeabili? Il mondo occidentale, soprattutto europeo con Horizon 2020, punta ad un esclusivo format, la pubblicazione ad accesso aperto, punta a rivoluzionare la scienza e a renderla aperta, il mondo orientale sembra chudersi in un approccio censorio, tutt'altro che chiaro.

Nature ha rilevato diverse liste compilate da istituzioni cinesi che già impongono ai ricercatori di evitare determinate riviste. Insospettisce il fatto che nell’elenco figurino periodici ad accesso aperto molto prestigiose in seno alla comunità scientifica internazionale e accreditate, un esempio paradigmatico è PLOS ONE. Com’è possibile che in Cina sia considerata una rivista non affidabile? Joerg Heber, redattore capo di PLOS ONE, dichiara di ignorare il motivo per cui alcune università cinesi dissuadano i ricercatori dal pubblicare con loro. Solo 119 su centinaia di migliaia di articoli sono stati ritirati, se questo è il criterio e, tra l’altro, questo dovrebbe essere segno di serietà.

Ren Chuanli, medico ricercatore del North Jiangsu People's Hospital sostiene che si tratti di questioni etiche e che il Governo non dovrebbe indicare obbligatoriamente dove non pubblicare e che la responsabilità dovrebbe essere rincondotta all’individuo, a chi pubblica.

Nature ci informa che Lars Bjørnshauge, amministratore delegato di Copenaghen del Repertorio internazionale delle riviste ad accesso aperto, il DOAJ, che accredita le riviste secondo precisi standard, ha ragione di ritenere che le liste nere possano essere una strategia da parte della Cina per promuovere riviste cinesi rispetto ad altre. Il che, considerata la barriera linguistica, apre una serie di problemi.

Piuttosto che censurare le riviste scientifiche o imbavagliare certi editori, i ricercatori cinesi concordano nel sottolineare l’urgenza di rinnovare il sistema della valutazione della ricerca, altra questione scottante anche nel mondo occidentale. Sul punto dei finanziamenti alla ricerca e la valutazione dei risultati si apre un altro fronte di riflessioni e, è il caso di dire, ogni mondo è paese.

Beall’s list

http://web.archive.org/web/20170112125427/https://scholarlyoa.com/publishers/

http://web.archive.org/web/20170111172309/https://scholarlyoa.com/individual-journals/

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