• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > Il volto oscuro del cinema

Il volto oscuro del cinema

Guardare un film vuol dire spesso confrontarsi con il volto e le espressioni dell’attore in un modo che, nel teatro o nella pittura, non è semplicemente possibile. A suo tempo, il primo piano cinematografico fu percepito come uno scandalo visivo, mentre oggi ci appare del tutto accettabile. Ma siamo sicuri di sapere che cosa accade a un volto mentre lo vediamo agire sulla scena? E dopo che il film è finito? Ecco una storia di volti di celluloide, scritta da un critico sui generis in una collana editoriale altrettanto curiosa.

La storia del volto nel cinema o la storia di un unico volto che cambia, come sotto le abili dita di un addetto agli effetti speciali? Quando si parla di volti, nell’arte, il rischio di cadere in una lettura univoca, umanistica del volto come “specchio dell’anima”, e magari rifugio dai mali nel mondo, è dietro l’angolo. Questo genere di lettura è parziale, se non ingannevole. Nel suo libro, Face/on. Le narrazioni del volto cinematografico (Holden Maps, 2005),  Franco Marineo riesce con successo a evitare questo genere di semplificazioni. L’attenzione per l’ambiguità e la fuggevolezza del volto, per il fenomeno dell’espressione quale già si configurava nella fisiognomica, fanno di questo saggio una possibilità concreta per rivedere i film, per riprendere i rapporti spesso incerti o incostanti con il “cinema d’autore” (meglio sarebbe chiamarlo cinema di ricerca) guardando a quel luogo magico e, per l’appunto, tendenzioso che è il primo piano: il volto dell’attore, il suo fascino e la sua potenza, dunque.

Marineo cita alcuni importanti teorici del cinema e delle arti visive - Balàsz, Deleuze, Kassner - nell’introduzione al volume, ma non rimane ancorato al modello, abusato, del saggio accademico dove i legami con la teoria rimangono spesso l’unico motivo d’interesse per il lettore. Al contrario, i capitoli dedicati a film come Eyes Wide Shut, Elephant o Le onde del destino non sono lo svolgimento di premesse teoriche vincolanti, magari da decostruire con acredine, quanto semmai analisi che partecipano, non senza ironia, alla narrazione di film celebri intesi come tasselli di una visione plurima e mai convenzionale. Tasselli visivi che formano, quasi per gemmazione, una “sotto trama” fatta di fotogrammi, relazioni estetiche, film dentro il film. Volti che si rincorrono, storie di fantasmi che, secondo un modello letterario e teorico insieme - sullo sfondo restano il palinsesto genettiano e la biblioteca di Borges -, appartengono ad una possibile “storia del cinema” per immagini. L’archivio ideale di un cinefilo, si potrebbe dire, suddiviso per categorie ma ricco di suggestioni che difficilmente si possono cogliere senza far funzionare davvero lo sguardo, ogni volta unico e ogni volta più profondo.

E’ anche il movimento della moviola, oggi andata in pensione con il montaggio digitale, alla quale ha reso omaggio Jean-Luc Godard nelle sue Histoire(s) du cinèma. Face/on non è che una scheggia, beninteso, di una storia tutta da scrivere e da vedere, qualcosa che nemmeno Internet, in fondo, offre ancora dato che richiede sia l’occhio critico- vigile e informato, spesso disincantato- sia il “cine-occhio” (D.Vertov) puro e semplice, nello stesso tempo alfabetico e visuale. Forse ci arriveremo, per il momento non ci resta che goderci questi piccoli, grandi viaggi attraverso il cinema.

Dato che Marineo denuncia a chiare lettere che la scelta dei film inclusi nel suo libro è personale e tutt’altro che esaustiva, mi permetto di scegliere anch’io tra i capitoli qualche scheggia visiva seguendo delle traiettorie soggettive, anche emotive: Cronenberg e Jarmusch. Ecco due opere in cui il volto dell’attore subisce davvero delle metamorfosi singolari. Perché non sempre il volto si trasforma mediante un’emozione, come nella paura o nello stupore, ma può accadere che la crisi sia più enigmatica e irreversibile. Il volto “negativo” dell’arte contemporanea alberga anche nel cinema. E con il cinema di Cronenberg non siamo, forse, entrati tutti nell’era dell’apatia mediatica?

Nel film Crash, “le facce dei protagonisti non cambiano mai espressione. Si muovono sempre in bilico tra lo sbigottimento e la mancanza di emotività, anche se si trovano alle prese con sensazioni potenti quali possono essere l’amplesso, la prossimità della morte, gli incidenti stradali (…) Girano così, in tondo, sempre sulle stesse strade. Attendendo la prossima volta. Procrastinando la loro sensibilità, allenandosi intanto ad atrofizzarla. Nel complesso inseguimento di nuove, forti, estreme emozioni, i protagonisti di Crash si limitano a certificare con distacco come ogni volta, malgrado la posta si alzi esponenzialmente e il rischio sia sempre più terminale, il loro corpo non sia stato in grado di sentire. E allora rinviano tutto a un altro momento. Spostano tutto verso il futuro”.

L’accostamento, nello capitolo intitolato Il volto annientato, del film di Cronenberg con Dead Man di Jarmusch è di quelli da manuale, non manca neppure una certa suspence. Qui è davvero come se la teoria si facesse narrazione, secondo un modello “ibrido” oggi molto promettente. Al di là della teoria, ma anche al di là di ogni immediatezza priva di quel “secondo grado” che ormai fa tutt’uno con la nostra cultura audiovisiva. Scorrendo i capitoli, guardando le fotografie che rubano l’istante del cinema, si attivano già i sensi per un’avventura che si annuncia, fin dall’inizio, destinata a moltiplicarsi in altri vedute più o meno panoramiche, magari in altri contesti adiacenti il cinema, come i videoclip o il documentario. Non ci resta che proseguire sul filo del rasoio che, continuamente e con inesorabile lentezza, sottrae densità e sostanza al volto delle origini, quel volto pieno e desiderabile delle star del cinema muto. Il personaggio interpretato da Johnny Depp in Dead Man, per esempio, è un uomo già morto, una bislacca incarnazione di William Blake che continua a respirare, chissà come, in un Far West satireggiato fino a sparire nello splatter e nel teatro dell’Assurdo: “Jim Jarmusch ha scelto il western per raccontare i bordi invisibili della mitologia western. Ha scelto il western per amplificare il senso di spaesamento che deve assalire lo spettatore alle prese con la storia di un uomo morto che muore ancora una volta, che rimuore, che continua a morire lentamente ma inesorabilmente fino alla fine del film”. Fino alla fine del cinema? Senza che possa morire davvero, certo. Oggi l’immagine del cinema si sta facendo sempre più sfuocata, a bassa definizione, si allontana dal cinema che abbiamo imparato a guardare, e si affaccia sul mare frammentario e digitale di un’altra visione.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares