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Il procuratore Antimafia Grasso: "Da Lampedusa spariti 400 minori"

Spariti nel nulla 400 minori stranieri sbarcati a Lampedusa nelle ultime settimane. Lo spettro della mafia dietro l'emergenza umanitaria che ha interessato l'isola.

La notizia è inevitabilmente finita nel frullatore mediatico, conseguenza principale dello stato di guerra, grado zero della propaganda, variabile booleana dell'informazione che fa slittare semanticamente tutte le derivate nelle agende setting dei media mainstream. In questi casi bisogna solo seguire il flusso del “male” reale con la tavola da surf.

Il 28 marzo scorso, il Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, intervenendo ad un convegno sul tema della tratta delle immigrate e sullo sfruttamento della prostituzione, ha dichiarato che "Quattrocento minori sbarcati a Lampedusa sono scomparsi. Alcuni di loro sono stati trovati con dei bigliettini sui quali c'era scritto il numero di un referente al quale collegarsi e che, probabilmente, fa capo a qualche organizzazione criminale".

Alcuni missionari comboniani di ritorno da Lampedusa, dove in queste settimane si erano trasferiti per monitorare le procedure di accoglienza dei profughi provenienti dalla Tunisia, hanno confermato che di 700 circa minori sbarcati sull'isola effettivamente ne mancherebbero all'appello circa 400. Una notizia analoga è stata raccolta anche tra le voci degli isolani. Spariti nel nulla da un'isola che si trova ad oltre 200 km di distanza dalla Sicilia.

Nessun dubbio sull'autorevolezza della fonte. Pur con le dovute cautele dovute all'assenza di procedure per l'identificazione a Lampedusa, dove durante l'ultima emergenza si è arrivati a toccare anche le 12.000 presenze di stranieri, facendo saltare completamente tutti i meccanismi di controllo ed “accoglienza”, con il solo CIE militarizzato di contrada Imbriacola che, a fronte di 800 posti disponibili, è arrivato ad ospitare 3000 tunisini in condizioni igienico sanitarie indescrivibil.

Se la notizia venisse confermata aprirebbe uno scenario inquietante, soprattutto se consideriamo che ancora non abbiamo fatto i conti con il prevedibile esodo di massa dalla Libia, dove i bombardamenti della NATO sembrano ancora lontani dal finire e la “guerra umanitaria” non accenna ad una soluzione chiara. Uno scenario che presenta alcune analogie con quanto accadde nel corso della guerra contro la ex Jugoslavia del 1999.

Le altre “guerre umanitarie”.

Può una guerra essere giusta? Oppure umanitaria? Negli ultimi venti anni, l'evoluzione della parola guerra, in Italia, ha seguito il destino del cambio di mission strategica della NATO. Una guerra non è più una guerra... Deve avere sempre un aggettivo al suo fianco, altrimenti non si capisce mai bene di cosa stiamo parlando.

La guerra del Golfo del 1991 fu definita una “guerra giusta” e fu la prima guerra dell'Italia repubblicana. Vide il nostro paese partecipare con un impegno militare quasi simbolico, che sarebbe stato anche invisibile se il capitano Cocciolone ed il maggiore Bellini non fossero stati catturati dagli iracheni proprio nel primo giorno di bombardamento sull'Iraq. Il tornado che pilotavano missed a lot, per usare una espressione del gergo militare, le operazioni di rifornimento in volo ed i due ufficiali finirono dritti dritti nel target della contraerea di Saddam Hussein. Si temette il peggio per alcune ore finché, il 20 gennaio, apparvero sui teleschermi di tutto il globo con il loro inglese stentato, a fianco del baffuto presentatore sosia del dittatore iracheno, con strazio delle mamme e dell'indimenticabile Emilio Fede.

Erano altri tempi per il nostro paese, c'erano ancora i movimenti pacifisti sviluppatisi contro gli euromissili e, per partecipare con una squadriglietta di 8 aerei Tornado, per fare “la nostra bella figura internazionale”, ci volle un sofferto voto del parlamento plurinquisito di Andreotti VII°, che spacciò la "guerra giusta" per una “operazione di polizia internazionale”, aggirando l'articolo 11 della Costituzione. Come è noto, la dispendiosa operazione di polizia non si risolse affatto con la cattura del “ladro” che rimase in carica altri 12 anni, massacrando kurdi ed opposizioni interne, fino al 2003.

Ma ormai il nostro paese aveva già cambiato il proprio modello di difesa, e la stessa NATO aveva già cambiato la sua visione strategica.

Il primo intervento militare della sua storia, la NATO, lo attuò nel 1999, durante il governo D'Alema, e con la presidenza USA di Bill Clinton, all'epoca nel pieno della bufera del sexgate, con l'operazione Allied Force, in Kosovo.

Poco dopo la fine dei bombardamenti nella ex Jugoslavia, in un libro intervista di Federico Rampini, "Kosovo, gli italiani e la guerra", pubblicato dalla Mondadori nel 1999, fu lo stesso Massimo D'Alema a rivelare alcuni interessanti retroscena relativi al coinvolgimento italiano nelle operazioni militari a guida USA. L'ex premier, preoccupato della possibilità che i piani militari, non contemplando l'attacco via terra, consentissero al presidente serbo Slobodan Milosevic l'opportunità di allargare il conflitto su scala regionale, scaricando masse di profughi kosovari oltre i confini della provincia autonoma, in un colloquio privato con il presidente americano Clinton, chiese cosa era stato previsto per uno scenario del genere sentendosi rispondere (non da Clinton, ma dal suo consulente militare) che anche in quel caso i piani della NATO prevedevano di continuare con i bombardamenti fino alla resa del regime.Tertium non datur, anzi secundum non datur.

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Clinton, alla scadenza del suo secondo mandato, distratto dallo scandalo Lewinski, non aveva evidentemente letto le memorie di Bismarck, secondo cui "quella terra non valeva le ossa di un solo granatiere di Pomerania”, ed era sinceramente convinto che avrebbe creato l'Alto-Adige-dei-Balcani con soli tre giorni di bombardamento su Belgrado. In fondo non si trattava di una regione che la stragrande maggioranza dei cittadini statunitensi nemmeno sapevano dove si trovasse? Il principio “one people, one state, one language”, come sappiamo, ha finito poi per diventare uno dei più clamorosi autogol strategici della diplomazia internazionale, sempre se ci si vuole basare sulla buona fede dei nostri alleati cow boy. Dovremmo?

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L'UCK (l'esercito di liberazione del Kosovo) una formazione paramilitare nazionalista che si ispirava al defunto dittatore albanese Enver Hoxha (ha guidato l'Albania ininterrottamente dal 1945 fino al 1985, anno della sua morte, ovviamente), nata nella diaspora albanese kosovara in Svizzera e Germania, considerata una organizzazione terrorista dagli USA fino al 1998, dedita negli anni '90 al traffico internazionale di droga ed armi grazie allo spostamento delle rotte criminali a sud della Dalmazia e della Bosnia, durante il conflitto serbo-croato-bosniaco, incominciò a ricevere armi e denaro dalla CIA proprio nell'anno precedente il conflitto.

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I kosovari in verità avevano già un loro leader, Ibrahim Rugova, a capo di un popolare movimento nonviolento che aveva varato un vero e proprio stato parallelo autofinanziato (con tanto di scuole, università e persino ospedali) per obbligare il nazionalismo di Milosevic a riconoscere la minoranza albanese. Gli USA però, per alimentare un potenziale scenario di conflitto, i cui esiti erano assolutamente imprevedibili sullo scacchiere balcanico, non esitarono a mettere una bella e sostanziosa fiches sull'UCK, scegliendo un'organizzazione guidata da un personaggio che si faceva chiamare "il serpente" e che non contava nemmeno cinquemila militanti reali, come interlocutore diplomatico.

Sul finire degli anni '90, nella diplomazia americana, il peso strategico della crisi del Kosovo assunse un peso paragonabile solo a quello dell'Iraq. Nel corso del 1998, gli attacchi dell'UCK, sotto le pressioni della CIA, provocarono la prevedibile brutale repressione dell'esercito Serbo, causando 300.000 sfollati interni e nelle regioni confinanti.

In nome della protezione degli sfollati e dei profughi, e per garantire l'indipendenza del Kosovo, venne prospettato l'intervento della NATO.

All'Activation Order del NAC (North Atlantic Council) dell'ottobre 1998, si deve anche la causa principale della caduta del governo Prodi, che non avrebbe mai potuto ricevere il sostegno del voto del PRC, il cui gruppo parlamentare era stato eletto con un "patto di desistenza" all'epoca (come ricorderà anche l'ex ministro della Difesa Carlo Scognamiglio Pasini in una lettera pubblicata nel 2004). Il governo D'Alema nacque con una maggioranza allargata agli atlantisti di Francesco Cossiga.

In pratica gli USA promettevano agli albanesi del Kosovo ciò che non si era voluto concedere ai bosniaci, ed ovviamente ai kurdi, ai tibetani, ai timoresi ed ai palestinesi.

Ma anche lo scenario che riguardava gli equilibri di potere interni all'amministrazione USA, un conflitto che divenne chiaro solo con le successive elezioni presidenziali vinte da G.W.Bush, lasciava presagire una assenza di strategia di una alleanza atlantica che veniva ribattezzata con propensioni offensive che interessavano anche l'Eurasia, oltre che tutto il bacino del mediterraneo, senza un ruolo guida saldo da parte dell'alleato americano.

Lo scontro interno vedeva opposti il Dipartimento di Stato contro il Pentagono ed il National Security Council, Madeleine Albright contro Holbrooke. Non ultime le pressioni della lobby albanese con il suo referente Bob Dole, le tensioni malcelate tra il pentagono ed il gen. Wesley Clark comandante militare supremo che definiva sé stesso "un semplice ufficiale della NATO che riferiva agli Stati Uniti" e che non fu nemmeno invitato alla cerimonia per commemorare il cinquantenario della NATO.

Il risultato, con l'inizio dei bombardamenti, come sappiamo, fu lo scatenarsi di una vasta azione offensiva via terra da parte dell'esercito Jugoslavo, nei confronti della popolazione civile, con il conseguente prevedibile esodo massiccio di circa un milione di albanesi kosovari in Montenegro, Macedonia ed Albania, con decine di migliaia di migranti umanitari che attraversarono in tutta fretta l'Adriatico sui gommoni per recarsi in Puglia, riuscendo misteriosamente ad aggirare la flotta della NATO. Un'emergenza che costrinse il governo a varare una legge speciale ad hoc per gestire le attività straordinarie di soccorso ed accoglienza e regolamentare lo status temporaneo dei migranti kosovari.

Lo scenario nei fatti, per quanto fosse prevedibile, era stato “ufficialmente” ignorato dai piani militari predisposti dal generale Wesley Clark, al punto che tra il 29 aprile ed l'8 maggio 1999, si moltiplicarono le iniziative diplomatiche, per favorire una soluzione pacifica basato su un piano di spartizione del Kosovo, proposto già due anni prima da Milosevic. In meno di 10 giorni ne successero di tutti i colori.

Il 6 maggio, mentre Ibrahim Rugova, liberato dopo accordi presi tra il presidente jugoslavo e il ministro degli esteri italiano Lamberto Dini, si trovava in Italia inviato da Milosevic per trattare una soluzione diplomatica, in Kosovo veniva ucciso dall'UCK il braccio destro di Rugova, Fehmi Agani, l'uomo che rappresentava l'anello indispensabile di ogni accordo per una posizione politica unitaria tra le forze politiche albanesi del Kosovo. L'8 maggio, mentre i G-8 mettevano a punto un piano di pace da sottoporre all'approvazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU - decisione a proposito della quale Clinton osservava fiducioso: "se la Russia è a favore, anche la Cina lo sarà" - un missile centrava in pieno, per "errore", l'ambasciata cinese a Belgrado provocando la morte di tre giornalisti cinesi. Ma anche la cancellaria tedesca non scherzava e, per dimostrare agli alleati di non essere da meno, riuscì a farsi pubblicare sotto il naso, sul settimanale Der Spiegel, in quegli stessi giorni, le cartine riservate relative alla ipotesi di spartizione del Kosovo che la diplomazia tedesca stava trattando segretamente con Milosevic.

E si potrebbe continuare con gli esempi.

La rotta dei balcani.

Una guerra è sempre un atto politico "continuato per via militare", ed una guerra puramente politica è tale se abbraccia gli interessi vitali dei popoli. Una guerra è fatta di eserciti, corpi diplomatici, di agenzie e network che mettono in luce gli apparati di potere reali che compongono la "filera del potere" di uno Stato.

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Anche nel caso del conflitto nella ex Jugoslavia sussistevano delle ragioni prettamente politiche: scongiurare il nascente nazionalismo grande-albanese, approfittare della debolezza strategica della Russia per entrare nei Balcani (in Kosovo infatti sorge attualmente Camp Bondsteel la più grande base USA in Europa), riaffermare una nuova mission per la NATO, testare da parte degli USA l'affidabilità degli alleati europei che si approssimavano alla nascita dell'euro verificando le ragioni di unità politica e strategica con gli americani, mettere in evidenza l'assenza totale di un disegno politico unitario dell'UE, etc.; c'erano ragioni energetiche, ovvero rallentare o deviare su territori “sicuri” i corridoi multimodali di trasporto gas-greggio dalle regioni centroasiatiche, mantendendo da partedegli USA un rigido controllo sulle risorse energetiche. Ma anche controllare le vie dei traffici criminali, che a partire dagli anni '70 avevano spostato sulle coste balcaniche le basi per il contrabbando ed i terminali della rotta dell'oppio.

Alla fine degli anni '80, ad esempio, si stimava che l'80% dell'eroina del triangolo d'oro trafficata in Italia proveniva dai Balcani dopo essere stata raffinata in Turchia, mentre gran parte della Cocaina seguiva la rotta dall'America latina alla Grecia per poi entrare in Italia attraverso il Montenegro, l'Albania, attraverso un asse centrale che vedeva i traffici incrociarsi in Serbia, la quale, secondo l'Observatoire Geopolitique des Drogues di base a Parigi, gestiva i traffici di droga attravero i servizi segreti e di controspionaggio. I conflitti nei Balcani negli anni '90 hanno poi trasformato queste attività illegali nelle principali forme di finanziamento delle formazioni militari, che scambiavano droga con armi, arrivando a controllare infine la tratta degli esseri umani sul finire degli anni '80.

Con la fine del conflitto nei balcani le rotte della tratta e dei traffici criminali si spostarono sul fronte sud, in maniera significativa, aprendo le vie del mare che hanno incrociato l'isoletta di Lampedusa negli ultimi dieci anni.

In conclusione, ritornando alla dichiarazione del procuratore antimafia Grasso, se fosse vero che da Lampedusa sono spariti nel nulla 400 minori, ci sarebbero tutti i presupposti per sospettare che l'esodo sia stato governato dalle mafie sin dalla Tunisia, e che Lampedusa fosse una tappa prevista, la cui fase successiva del viaggio era già stata organizzata. Si configurerebbe quindi l'inquietante ipotesi che la criminalità organizzata abbia contribuito a creare l'emergenza a Lampedusa.

Non occorre essere degli abili strateghi per comprendere che l'effetto dei bombardamenti NATO in Libia non abbia potuto sortire conseguenze dirette sui fattori di push and pull che hanno caratterizzato il flusso di profughi, prevalentemente tunisini, che ha interessato l'isola, i cui movimenti dipendono purtroppo, al di là delle intenzioni, dai trafficanti della tratta degli esseri umani, dalle connivenze degli stessi con le motovedette della guardia costiera.

E' evidente altresì che questo flusso improvviso stia fornendo una valida moneta diplomatica spendibile sui tavoli internazionali al governo Berlusconi, il quale può dimostrare, da un lato, che la posizione strategica dell'Italia è centrale per quanto riguarda il governo dei flussi migratori in entrata nella fortezza europea, interessanti anche paesi come la Francia e la Germania, allo stesso tempo fornendo un argomento per difendere le necessità strategiche che hanno portato agli accordi con la Libia, qualsiasi sia lo scenario che si andrà a definire con questa guerra.

Si può quindi immaginare, per analogia, che gli interessi strategici corrispondono anche ai traffici di varia natura che attraversano i mari o i territori, coinvolgendo settori legali ed illegali.

Che la crisi di Lampedusa ci dica qualcosam quindi, sulle rotte internazionali che oggi interessano le mafie nel mediterraneo?...fantapolitica?

Chissà dove saranno ora quei ragazzi...

Commenti all'articolo

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.254) 13 aprile 2011 10:21
    Damiano Mazzotti


    Bellissimo articolo... Finalmente qualcuno che è riuscito a raccontare come andarono veramente le cose in Kosovo... Il problema è che siamo tutti discendenti di Caino, e quando si presenta un Abele che vuole fare cose oneste e pacifiche, la maggioranza di invidiosi e violenti fa di tutto per farlo fuori dai sistemi di potere, fino ad arrivare ad uccidere molte persone...

    Pure Gandhi (che aveva i suoi limiti), ci ha rimesso le penne... 

  • Di Emiliano Di Marco (---.---.---.254) 13 aprile 2011 12:07
    Emiliano Di Marco

    Grazie di cuore, e condivido quello che dici, è il lato oscuro del potere che uccide Abele... smiley

  • Di (---.---.---.105) 13 aprile 2011 12:14

    E’ un articolo polpettone, interessante e che giustamente denuncia molte cose, ma non tutto condivisibile.

    Direi che anche l’articolista si e’ perso i 400 minori nel suo articolo.

    Io non sono informato, ma sospetto che quei 400 siano solo una parte dei reclutati dalla mafia, nel senso che probabilmente sono stati reclutati anche molti adulti.
    Aggiungerei che il "fora de ball" e la minaccia di rimpatrio per i migranti sono un ottimo incentivo ad accettare la protezione mafiosa.
    In termini schietti, la progredita Italia, ai migranti dice: io ti accetto, ma solo se ti integri con le nostre mafie.

    Geri Steve

  • Di Emiliano Di Marco (---.---.---.254) 13 aprile 2011 12:30
    Emiliano Di Marco

    Grazie ...sui minori si può immaginare che abbiano proseguito il viaggio via mare...alcuni pare avessero già precedenti penali (me lo ha riferito un padre comboniano che è tornato da Lampedusa tre giorni fa). Verranno usati come corrieri? Sfruttati nella tratta della prostizione minorile? Destinati allo spaccio? Oppure semplicemente le loro famiglie hanno pagato la criminalità per rendere più veloce i ricongiungimenti? Si può solo congetturare al momento...

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