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Il delitto di via Poma: la giustizia “non percepita”

Per parlare della sentenza di condanna di Raniero Busco per il delitto di via Poma è utile leggere un brano del premio Nobel per l’economia Amartya Sen.

“Secondo la prassi giurisprudenziale si ripete spesso che la giustizia deve non solo «essere fatta», ma anche «essere percepita come tale». Quale è il senso di questa affermazione? Cosa può importare che le persone convengano che «giustizia è stata fatta», una volta che essa si sia effettivamente realizzata? Perché specificare, vincolare o integrare un requisito squisitamente giuridico (che sia fatta giustizia) con un’istanza di carattere populista (che la gente lo percepisca)? Non si rischia così di confondere correttezza giuridica e approvazione popolare, giurisprudenza e democrazia ?

In realtà non è difficile intuire alcune delle ragioni strumentali per attribuire importanza alla necessità che una decisione sia percepita come giusta. L’amministrazione della giustizia, per esempio, risulta in generale più efficace laddove si percepisce che i giudici lavorano scrupolosamente anziché in maniera approssimativa. Se una sentenza ispira fiducia e generale apprezzamento, darle attuazione sarà, molto probabilmente, più facile. Non è affatto problematico, dunque, spiegare perché quella frase sul valore della giustizia «percepita» abbia riscosso tanto successo e sia stata tante volte riproposta dopo la sua prima formulazione, nel 1923, da parte di Lord Hewart: «La percezione che giustizia è fatta deve essere manifesta e indubitabile».”

* * *

Così Amantya Sen e, anche in questa occasione, non si riesce a dissentire da quello che dice. Passiamo adesso a parlare del delitto di via Poma e della recente sentenza. Del dibattimento resta il ricordo di un consulente tecnico d’ufficio ben deciso ad esprimere il suo parere: il morso sul seno della vittima, dato assolutamente poco prima dell’omicidio e riconducibile senza ombra di dubbio all’imputato. Quest’ultimo, nudo ed indifeso dinanzi ai magistrati: non aveva scelto nessun consulente di parte per contrastare e per contraddire il perito d’ufficio. A questo punto la sua condanna era assolutamente certa (con buona pace della meraviglia del suo legale). Perché, spesso e volentieri, le sentenze non le scrivono né il pubblico ministero né il giudice, le scrivono i periti.

E’ un meccanismo feroce, che ti stritola senza lasciarti scampo: le parole di un signore in giacca e cravatta diventano verità epistemologicamente incontrovertibile, come se un deus ex machina fosse intervenuto ad esercitare i suoi poteri sulle umane vicende asserendo l’assolutamente vero.

Al cittadino spettatore sembra difficile accettare che la chiostra di un morso sul seno (ma, poi, lo era davvero un morso?) possa avere la stessa valenza di un’impronta digitale o, addirittura, di una prova del DNA. E poi, anche se il signore in questione avesse dato quel morso, come si passa dal morso (che, dato sul seno, potrebbe anche essere un segno di affetto) all’omicidio?

L’impressione finale è che, indipendentemente dalla colpevolezza dell’imputato, quest’ultima non sia stata sufficientemente dimostrata. E che, comunque sia di ciò, un fatto del genere può accadere a chiunque; e, pertanto, a scuola, invece di poltrire sui banchi, i nostri giovani dovrebbero essere istruiti a relazionarsi adeguatamente con quell’immenso leviatano che è la Pubblica Amministrazione; anche quando amministra la giustizia. Perché se un tempo il problema era quello di difendere il singolo dall’assolutismo (e lo fece il liberalismo) o quello di difendere il lavoratore dal capitale (e lo fece il socialismo), oggi il problema è quello di difendere il cittadino dallo Stato e dalla sua burocrazia di mandarini. Il tutto senza responsabilità alcuna dei singoli: le discrasie della Pubblica Amministrazione costituiscono un problema sistemico.

Per il delitto di via Poma, che giustizia sia stata fatta, orbene non è assolutamente percepibile in maniera manifesta e indubitabile, come richiedeva Lord Hewart.

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