La riforma della professione forense
Il premier Matteo Renzi non perde occasione per annunziare eclatanti riforme epocali, atte a rinnovare il nostro arretrato Paese. L’ultima volta l’occasione è stata la conferenza degli ambasciatori alla Farnesina. Per aiutarlo in questa impresa parliamo oggi di riforma della professione forense.
Non si può parlare delle attuali ingiustizie sociali del nostro Paese senza affrontare il problema dell’accesso al sistema di legalità. L’accesso al sistema di legalità è difficile e gravoso per tutti, ma lo è in particolar modo per le categorie sociali più deboli, al punto che è diffusa la convinzione che, contro taluni poteri “forti”, come, ad esempio gli Istituti di Credito, le istanze di giustizia del cittadino comune sono destinate ad essere disattese.
La professione forense ed il modo con cui essa partecipa all’Istituzione di Legalità è forse al cuore del problema. Ne parla Paolo Bogna nel suo saggio Difesa.
«Oggi la difesa fronteggia altri nemici, più subdoli e insidiosi di quelli faticosamente sgominati nei decenni scorsi. Si chiamano crisi dell’efficacia del processo, eccesso di offerta, incertezza economica dei più giovani, rischio di perdita dell’indipendenza.
I numeri aggravano i difetti di sempre. E vi sono numeri che parlano da soli: gli avvocati che nel 1947 erano, in Italia, 21.000, sono oggi più di 200.000. Circa metà di loro vive con nomine d’ufficio e grazie al patrocinio per i non abbienti pagato dallo Stato. E’ ovvio che l’eccesso di offerta e le difficoltà economiche di una larga fascia di avvocati giovani dilatano al tentazione di praticare una concorrenza a basso prezzo, basata su un superficiale impegno nello studio della causa e sulla trascuratezza dell’aggiornamento professionale. A questa nuova precarietà si affianca un aumento straordinario delle forze di attrazione esterne: in primo luogo una clientela che esprime interessi di settore che richiedono specializzazioni sempre più raffinate e una maggiore vicinanza, anche culturale, del professionista a cui ci si affida. Tutto ciò rischia di mandare in frantumi l’antica immagine dell’avvocato “mediatore sociale”, del libero professionista sapiente e colto, capace di dispensare consigli al proprio cliente in qualunque campo»
Questo nel 2.010; oggi, a distanza di cinque anni e dopo la violenta crisi economica della globalizzazione, i problemi si sono accentuati in maniera esponenziale. Gli avvocati in crisi da astinenza di lavoro sono la quasi totalità e non solo i più giovani; il sistema appare del tutto incapace di operare in un regime di free market; la necessaria selezione in base alle capacità professionali appare del tutto incapace di intervenire; si moltiplicano i palliativi per la sopravvivenza economica di molti professionisti, ossia le occasioni di guadagni da attività marginali rispetto alla professione forense, quali quella di sostituire i notai nella redazione dei contratti di compra-vendita di immobili residenziali. Dell’utenza e delle difficoltà che tutto questo gli crea nell’accesso al sistema di legalità, nessuno si preoccupa.
Occorre ammettere con onesta intellettuale che, almeno nelle aree del Paese più arretrate, la professione forense scivola inesorabilmente in una attività border line, la quale, fra rinvii di udienza e nuovi inutili procedimenti, ha come unico obiettivo quello di massimizzare le parcelle dei legali. Talora, molto più spesso di quanto si pensi, si giunge all’infedele patrocinio, ovviamente a favore della parte che può pagare maggiori spese legali o, addirittura, facendo in modo che le spese legali siano alla fine a carico del cliente tradito.
Vi è un certo parallelismo tra il fenomeno degli abusi sessuali del clero e quello dell’infedele patrocinio degli appartenenti al professione forense. Innanzitutto la debolezza intrinseca sia del minore violato sia del cliente tradito. Nessuno è più debole di un minore privo di esperienza alla ricerca della propria formazione spirituale e di un cittadino privo di conoscenze di diritto che ricorrere alla tutela di un legale.
Poi il naturale affidamento che si pone nell’interlocutore:
- nel chierico da parte di chi frequenta la parrocchia o l’oratorio;
- nel legale da parte di chi frequenta il suo studio professionale.
Poi la tendenza dell’Autorità a gestire il problema negandolo in nome di una malamente interpretata Ragion di Stato e del tutto disinteressandosi delle parti lese. Per secoli la Chiesa di Roma ha negato il fenomeno e solamente oggi, dopo Ratzinger e dopo Bergoglio, ha cominciato ad affrontarlo. Analogamente da sempre i Procuratori, nemmeno davanti all’evidenza più assoluta si sono mossi per reprimere reati di infedele patrocinio. Forse oggi la Chiesa è in una posizione più avanzata rispetto alle Istituzioni di Legalità.
Per affrontare nel migliore dei modi il problema bisogna partire dal punto di vista fiscale.
La nostra generazione di italiani ha vissuto la progressiva applicazione della fiscalità ed ha scoperto che ad essa si accompagna un generale rispetto di altri aspetti importanti della convivenza civile. L’evasione fiscale non porta solo una mancata contribuzione alla cassa comune erariali, ma porta anche all’individuazione di aree di mancato rispetto delle regole. Un esempio per tutti, quello dei reati fiscali degli imprenditori, dai Cavalieri del Lavoro di Catania a Silvio Berlusconi. Il problema non è solamente quello della mancata contribuzione al prelievo fiscale, il problema è anche quello di come vengono impiegati i denari in nero. Ad esempio è di tutta evidenza per un popolo di fanatici del calcio che una società sportiva che può contare su risorse nascoste è di molto avvantaggiata su quelle che non mettono in atto questa pratica. Pare acclarato che il trio olandese del grande Milan, formato da Gullit, Rijkaard e Van Basten, fosse in buona parte pagato così.
Oggi, almeno nelle realtà più arretrate del Paese, la quasi totalità del compenso dei legali sfugge al fisco ed è corrisposto in nero. Quella degli avvocati è rimasta forse la categoria che maggiormente viola le norme fiscali. Il cliente deve pagare sempre in nero, magari suddividendo in più parti un unico compenso. Al massimo si può ricevere una modesta fattura finale di chiusura. Questo crea un rapporto “ammalato” fra cliente e professionista: il cliente non può avere alcuna ricevuta degli acconti erogati. Rapidamente il cliente si ritrova a non poter cambiare avvocato perché non ha le ricevute dei pagamenti fatti. Spesso questo porta ad una sudditanza del cliente nei riguardi dell’avvocato, una vera e propria sottomissione.
Non è esagerato dire che chi cerca di accedere al sistema di legalità e che, per farlo, non può non rivolgersi ad un legale perché il nostro ordinamento impone la difesa tecnica, alla fine si ritrova in una condizione lesiva della dignità della persona. Questa situazione è aggravata dalla generale assenza di un preventivo economico della prestazione del legale. Il conteggio è fatto sempre a consuntivo ed “imposto” al cliente: se non lo accetta, sarà l’Ordine degli Avvocati ad approvare il consuntivo e, solitamente, lo fa qualunque sia la cifra che esso riporta.
Ovviamente non sarebbe difficile porre rimedio a questo stato delle cose; ma le resistenze al cambiamento hanno difensori di eccezionale forza. Per prima cosa occorrerebbe vietare l’approvazione dei consuntivi da parte dell’Ordine degli Avvocati. Quest’ultimo dovrebbe approvare sempre e solo preventivi da comunicare al cliente. Il passo successivo dovrebbe essere quello dell’obbligo della tracciabilità dei pagamenti fatti a tutti i professionisti, avvocati compresi. Occorrerebbe convincere i clienti che è sempre meglio pagare un acconto di 1.000 Euro in maniera tracciabile che pagarne uno di 600 Euro in nero.
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L’augurio e che un premier giovane e battagliero come Matteo Renzi, per il bene del Paese, si impegni per una vera riforma della professione forense e non più per misure di sussistenza in favore dei legali in difficoltà economica.
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