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Festa del 14 Luglio in Francia: esaltazione di uno sterminio

È elemento essenziale di ogni regime politico, quello di costituire attorno a sé un proprio mito, una propria "storia eletta"; come tratto fondante della propria esistenza e giustificazione radicale del proprio esercizio del potere. La Rivoluzione Francese è per l'europa quel fondamento, quel motore immobile dal quale tutte le libertà democratiche e repubblicane originano. Gli sconfitti della storia sono però stati dimenticati. Urge quindi dissotterrarli, tanto per averne memoria.

Grandi festeggiamenti a Parigi per la consueta sfilata in onore della presa della Bastiglia. Festeggiamenti ai quali partecipa in prima persona - naturalmente - il presidente François Hollande; inevitabile per la carica istituzionale ricoperta, estremamente redditizio per il partito di riferimento. In equilibrio tra emorragie di voti e recuperi all'ultimo minuto, il "président normal" non si è infatti solo dedicato a guerre atte a dimostrarne il carisma politico: ha oggi la possibilità di ricostruire l'identità del Partito Socialista attorno ad un vecchio ed inesaurito mito, quello della Rivoluzione Francese.

Passata indenne attraverso i fili della divaricazione tra rivoluzioni buone e rivoluzioni cattive, la Rivoluzione Francese può ancora operare come strumento di unità nazionale perché al carattere fortemente nazionale lega la sua natura composita, in bilico tra liberalismo, radicalismo di sinistra e autoritarismo di destra. Certo, alcuni - in particolare la Sorbona - hanno tentato di recuperarne una chiave esclusivamente a sinistra, facendo leva sul giacobinismo e sulle sue radici roussoiane. E certo, le scuole di massa hanno propugnato l'esatto contrario, relegando il Terrore (1793-1794) ad una mera distrazione dall'inevitabile espandersi dei principi democratici in tutta Europa. Ciononostante già negli anni '70 nella stessa Sorbona François Furet tentava una demistificazione, ricostruendo attorno alle fasi rivoluzionarie l'espressione di un continuum, e non di una serie di scatole chiuse isolate l'una dall'altra. Comode al fine di spostare di lato pezzi di storia che non rientravano nei calcoli storiografici degli "impegnati", ma metodologicamente inaccettabili.

I rivoltosi e Luigi XVI (fonte: superstoria.it)L'impostazione di fondo di Furet lascia certo ad una prima occhiata qualche perplessità. Lo storico francese infatti propone una suddivisione in quattro fasi: due liberali (monarchia costituzionale, 1789-1792; Direttorio, 1794-1799) e due illiberali (terrore, 1793-1794; Napoleone 1799-1815), ma sarebbe difficile vedere qualcosa di "liberale" nella monarchia, o anche nel Direttorio. Un rovesciamento di regime di per sé non sa essere liberale, perché riconduce ad un esercizio della violenza che inevitabilmente tende a trasformarsi in crudeltà e piacere della sevizia. La fase monarchica ne presenta più d'una, dal più "leggero" episodio del 20 giugno 1792, quando una Parigi ormai giacobina vedeva irrompere la folla nella reggia del re, costringendolo per divertimento a "brindare alla nazione" col berretto frigio, fino alla distruzione della Bastiglia, con il linciaggio proditorio degli uomini della guarnigione (pure rei di aver sparato sulla folla), nonostante l'assicurazione data al comandante che nessuno sarebbe stato aggredito, in caso di resa.

Altrettanto difficile è dare del "liberale" al Direttorio, reo di aver operato la progressiva cessione di potere agli ufficiali rivoluzionari, ma anche di aver contribuito - ingaggiando ex-terroristi - alla bonifica detta di "desanculottizzazione", sterminando i robespierristi per tutta la nazione. Il tutto, va da sé, in nome della libertà.

Ma quel che resta soprattutto imperdonabile è uno degli eventi più feroci e brutali dell'intera era rivoluzionaria, paragonabile solo agli stermini operati in Francia durante le guerre di religione (1534-1629). E infatti di guerra di religione qui si tratta, perpetrata in nome del credo secolarizzato istituito proprio dalla rivoluzione francese e progressivamente radicalizzatosi fino ai giorni nostri: il credo della "dea ragione", delle messe para-massoniche che grande sviluppo avranno nella Parigi del Terrore. Legandosi forse - ma questo è discutibile - all'influsso che la nascente moda della massoneria comporterà in termini di concetti derivati dai culti mitriadici e zoroastriani. Difficile capire come questo sincretismo operò scontrandosi ed incontrandosi con le varie correnti dell'Illuminismo, ma di certo vide degli effetti inattesi, a volte brutali ma di certo nascosti sotto il tappeto della storia come si trattasse di errori di sistema.

Dopo tanta lunga e pedante digressione, il punto è uno: la rivolta in Vandea. Quella che le sfilate di Parigi dimenticano. Il rischio in Vandea, come quello nella Provenza ridotta in cenere nel 1540, era una protesta che raggiungeva ormai i tratti di rivolta armata e organizzata. In buona parte dei casi la Vandea è interpretata come la mano pesante del terrore contro una rivolta. Ciò è però solo parzialmente vero. Le campagne francesi fin da subito si mostrano diffidenti - se non parzialmente ostili - alla rivoluzione. Ma a scatenarle è nel 1792-1793 lo scoppio della guerra, e il progressivo logoramento della situazione militare (che poi può considerarsi uno degli elementi che spingono per l'egemonia dei giacobini). Inoltre, l'ordine esecutivo fondamentale a ché la Vandea venga sostanzialmente distrutta data 1° Agosto 1793. Ben prima che il sistema giacobino entri effettivamente in carica (5 Settembre 1793). A decidere il destino dei vandeani è dunque la monarchia, quella liberale. Ma veniamo ai fatti.

Le "colonne infernali" (fonte: Wikipedia) Alla fine del 1792 la rivoluzione è in crisi, la guerra con le potenze reazionarie volge al peggio, mentre in Francia scoppiano forti disordini. A causarli, la coscrizione draconiana imposta il 24 febbraio del 1793. 300000 uomini in più a far carne da cannone, 300000 uomini, mariti, padri e lavoratori in meno a sostenere l'economia. La risposta contadina è negativa, mentre si tenta in tutti i modi di evitare l'"estrazione" dei coscritti. L'invio di funzionari è inutile, intere regioni insorgono chiedendo la pace, ma invocando anche quel Luigi XVI che - con buona pace dei propositi democratici - resta il re buono vagheggiato per secoli dalle popolazioni di contro a persecuzioni considerate opera di sottoposti infedeli. Il re, si sa, non può sbagliare.

La rivolta, animata da contadini e preti refrattari diventa ben presto un grosso pericolo per le istituzioni rivoluzionarie. Dalla protesta si passa ad un vero e proprio movimento "controrivoluzionario": spuntano bandiere, gruppi, anche capi militari (e qualcosa si dovrà anche analizzare riguardo la provenienza di tante armi). I rivoltosi puntano a nord, alla ricerca di un'area tramite la quale favorire lo sbarco inglese. Armati della principale prerogativa della rivoluzione, quella di combattere per qualcosa, i contadini che la rivoluzione stessa doveva difendere avevano ormai tentato l'intelligenza col nemico. E - peggio - ci stavano anche riuscendo. Westermann e Santerre venivano poco dopo battuti con tutte le proprie armate.

La risposta dell'autorità centrale è quella citata del 1° Agosto 1793 e fa gelare il sangue: "distruggere la Vandea". La rivoluzione - d'altronde - non ammette prigionieri. I vandeani combattono con ostinazione, ma un'azione combinata guidata dal generale Kléber alla fine chiude lo scontro (22-23 dicembre 1793). La repressione - parole dello storico Paolo Simoncelli - "più che feroce fu di sterminio". La citazione di Westermann che segue è in linea con l'ordine di esecuzione: anch'essa fa gelare il sangue. Così il generale riporta all'autorità centrale: "Seguendo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, massacrato donne che, almeno loro, non figlieranno più briganti. Non mi devo rimproverare un solo prigioniero. Ho sterminato tutto". Potrebbe finire nel massacro di qualche migliaio di persone, ma non è così. Le truppe di Turreau, facendo seguito alla prima repressione, si guadagnano la nomea di "colonne infernali" procedendo al rastrellamento delle regioni, massacrando civili e distruggendo interi villaggi. La damnatio memoriae, pari solo a quella degli anabattisti (1540) o dei contadini (1526) ha il prezzo di ogni processo genocidiario: 250000 morti. Il 30% degli abitanti che non dovevano opporsi alla liberazione. E questa è solo una delle versioni, forse la più autorevole, ma non certo la più macabra. Un articolo pubblicato su La Stampa potrebbe convincervene.

È proprio l'articolo di Domenico Quirico a riportarci ai giorni nostri, impedendo la facile pratica di fuggire dal sanguinolento per gettarsi nelle braccia di autosustanzianti principi, ottimi se si vuole pensare che in fondo è bello vivere nella modernità, dove queste cose non succedono. Quirico ci riporta direttamente nella Francia orgogliosa della propria pacifica e gloriosa rivoluzione, a Nantes, dove nove fosse sono state trovate, fosse comuni che ricordano quelle del Ruanda o della Bosnia. Fosse dove centinaia di corpi furono gettati come pezzi di carne, perché "la pietà non è rivoluzionaria":



"Elodie Cabot, antropologa, ha un privilegio scomodo. È la prima a cercare le prove del carnaio vandeano. Certo, tutto si sa su quanto accade, per più di tre anni, nella terra che voleva restare fedele al suo Dio e al suo re: 350 mila morti, uomini donne e bambini, su una popolazione di 500 mila abitanti. A Parigi il Terrore si fermò a ventimila morti. Per la prima volta templari dell’annientamento massacrarono esseri umani per il fatto che erano qualcosa, cioè vandeani, e non per aver commesso qualcosa. Il Mondo Nuovo divenne un’irreale contrada deserta di umanità, in cui scorrazzavano idee-fantasmi. Eccolo «il crimine senza nome»: che dovette attendere l’ostinazione eroica di Raphael Lemkin e un Olocausto per chiamarsi genocidio."

È qui che la Francia contemporanea (o forse l'Europa) riappare col suo volto candido, temperato e feroce:

"La République non ha mai voluto aprire quelle fosse, come se temesse di risvegliare i suoi fantasmi. Nei libri di storia, nel «Récit national» la Vandea è temperata, sfumata, omessa. Elodie Cabot racconta: «Non è facile questo lavoro, ogni giorno scopriamo i segni evidenti di una immensa violenza e di un accanimento feroce sui corpi. La maggioranza porta segni di colpi di arma bianca, al cranio e agli arti. Ci sono bambini-soldato di 12-13 anni, abbiamo trovato lo scheletro di un bimbo di tre anni. Ma molti pensano che tutto ciò deve restare nascosto, su Internet appaiono accuse e minacce»".

Potremmo smettere questa orribile citazione, ma le parole della Cabot sono autoevidenti, e scorrono con una crudeltà tale che non possono che chiudere questa mefitica parata di stracci e orgoglio nazionale che oggi scorre in Francia, dimentica dei propri deliri e crudeltà. Che va avanti meccanica, alla ricerca di chissà quale remissione dei peccati:

"La cavalleria di Westermann insegue, taglia a pezzi, espone le teste dei «briganti» sui bastioni di Angers. La dissenteria raddoppia le vittime e la vasta tribù per metà formata da donne vecchi e bambini lascia al suo passaggio un terribile odore. Il freddo di dicembre è intenso, si avanza tra grida disperate di donne e di agonizzanti: ventimila «spettri ambulanti», raccontò un testimone. A Mans il 12 e 13 dicembre sono infine circondati. Westermann galoppa alla testa dei suoi uomini folli di furore e di sangue. Si riuniscono i prigionieri a centinaia, e la fucileria crepita, le baionette lavorano. Alle donne furono riservati i trattamenti più terribili. Si introdussero nei loro corpi cartucce a cui poi si diede fuoco, altre ebbero i ventri squarciati."

 

Fonti supplementari:

Paolo Simoncelli (2011), Storia Moderna, Cacucci
Paolo Simoncelli (2011), Revisionismo. Breve seminario per discuterne, Cacucci
Giovanni Sabatucci, Vittorio Vidotto (2009), Storia Contemporanea, l'Ottocento, Laterza

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