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Il silenzio

Il Silenzio è parte dei racconti editi in Horizon, pubblicato grazie al sito Lulu.com e ora in vendita sulla piattaforma e presto anche su Amazon.

La maledetta ventola vibrava e ronzava in maniera incontrollata. Un giorno – pensò – gli sarebbe crollata in testa, senza aver minimamente svolto alcuna delle sue funzioni. Se ne stava lì, nella luce giallastra delle lampadine ad incandescenza, agitandosi come viva, lasciando il languore di una presenza inesistente, più che il sollievo di un moto capace di implementare l'aria torrida del pomeriggio. Il vecchio abbassò lo sguardo dal ventilatore per guardarsi attorno. La casa era viva, ne era certo. O meglio, nel breve lasso lasciato libero tra imprecazioni ed Alzheimer, cosi sembrava. Gli oggetti hanno uno spirito, così aveva sempre pensato. Vivono sulla frequenza dell'esistenza degli uomini.

Forse era solo l'amabile pregiudizio di un pazzo, ma la logora tovaglia sul tavolo era lasciata lì non a prendere polvere. Essa era polvere. Le infinite molecole di un tempo passato, posatesi con delicatezza nel mondo – il suo mondo, almeno – a ricordare. Era il tempo di un'altra vita, una vita spezzata dai dispiaceri, forse. Ma quanto era. Coagulato attorno a quell'unico simulacro di stoffa, legno e metallo, non era più tornato a scorrere.

La perdita sussultava nel suo malandato cuore ogni volta che, armato di sedia a rotelle, con rozza determinazione si avvicinava alla cassetta delle lettere e vi trovava delle fatture. O forse era il colesterolo, una delle due.

Fatto sta che ad un anno dal giorno in cui un feretro infantile se n'era andato nel dimenticatoio delle civiltà assieme a sua moglie, raccogliere quegli avanzi di miseria comunemente denominati pensione ed annullare la propria progettazione economica in un fax a qualche anonima agenzia di riscossione crediti era divenuto intollerabile.

Perdere un pezzo del proprio tempo, brani del proprio passato e del proprio futuro era sempre triste, si limitavano a elemosinare i figli dell'uomo, i negozianti, persino gli ingranaggi di quell'età dei call-center che trovavano un istinto di pietà dietro la ripetizione meccanica di slogan. No, pensava, perdere l'anima, erosa dal dispiacere di essere gli ultimi, l'intima vergogna del debito che soffoca ogni respiro e gioia, ogni attimo dell'esistere che dovrebbe dare ossigeno ai polmoni, e non pungere la mente come una corona di spine; questo non è triste. Il suo nome è desolazione.

Il nulla s'inseguiva, quel pomeriggio, continuando ostinatamente a sbattere la testa contro le lancette dell'orologio, senza riuscire a spingerle al di là del secondo. Il vecchio, posata la spesa e preparato il proprio pranzo attendeva il forno elettrico, logoro, affinché riscaldasse tutto il sovrappiù che si ergeva dignitoso e anche alquanto tronfio dai non ricordava quanti grammi indicati dalla dieta propinatagli dall'ottimistico e appagato dietologo di turno. Aveva avuto, dovette ammettere con un sorriso, una certa qual soddisfazione nel concedersi almeno il pasto del condannato.

Di attendere in balcone non se ne parlava. Era stretto, troppo illuminato e troppo poco ventilato. E c'era troppa gente, lì fuori. No, avrebbe atteso seduto sulla sua sedia, ammirando con strenuo interesse il timer del forno che – almeno lui - si muoveva. Uno scampanellio annunciò l'arrivo del pranzo, non certo accompagnato. Avesse aspettato compagnia, avrebbe mangiato nell'aldilà.

Estrasse il cibo dal forno, premurandosi di non rimanere scottato. Precauzione inutile, come sempre. Ormai ci era abituato. Il rubinetto sgorgava acqua già prima che l'epica lotta tra il vecchio e il forno si consumasse: mentre l'acqua diventava fredda, i combattenti estraevano dal cilindro i loro colpi migliori, forgiati da rivalità consumata.

Inevitabilmente, con uno sguardo di sfida e orgoglio ferito, il vecchio si avvicinava al lavello per porre rimedio ad una scottatura storica reclamante vendetta, conscio che la Guerra dei Lavandini si sarebbe estesa per molti anni ancora, che i posteri avrebbero tessuto le lodi del glorioso vincitore. Tali confortanti pensieri riaccendevano l'appetito.

La questione irrisolta, una volta estinta tale esigenza, si presentava alla coscienza come necessità di trovare adito ad una qualche forma di interesse.

Lentamente, trascinando il proprio peso, l'uomo si diresse nella sala da pranzo. Posto di fronte alla televisione, megafono di una società che echeggiava da lontano, accese lo strumento. Iniziò lì un confuso combattimento con tutto ciò che considerava scempiaggine. Con la sola arma del telecomando e del mugugno d'indignazione la rissa divenne un più ordinato scontro militare. Sembrava che la macchina stesse per scoppiare, tante erano le persone che il vecchio vedeva lottare senza pietà per rendersi visibili al mondo.

Borbottando alle divinità dei canali, passava dai sentimenti ridotti a melodramma, ai melodrammi ridotti a tragedia, alle tragedie ridotte a farsa. Non credo che Donne intendesse questo, per nessun uomo è un'isola, disse tra sé e il proprio io sarcastico, guardando una serie di ometti confinati in qualche sperduto paradiso a gareggiare per il nulla. Cambiò canale. Una disgrazia in diretta speciale estrema con tanto di modellino in tre dimensioni veniva consumata dall'audience, ma solo in attesa, fagocitata la pubblicità dello sponsor, del cadavere di una vittima prontamente recuperato per un'autopsia in tecnicolor. Col commento speciale del nostro criminologo da allevamento a terra.

Altro canale.
La principessa legge una rivista.
Altro canale.
La principessa si cambia d'abito.
Altro canale.
La principessa si taglia le unghie dei piedi.
Altro canale.

Chiuse gli occhi un momento. Era vagamente esterrefatto. Bene. Il mondo è folle, va tutto bene, puoi farcela, un altro canale e poi basta, un altro canale poi basta. Riaprì gli occhi.

Un gruppetto di suoi coetanei ballava e cantava, con corteggiamenti di imbarazzante convinzione. Era il fondo, pensò. Balbettanti e vuoti di ogni sentimento uccidevano - solitudine, forse - l'unico luogo rimasto loro.

Stava afferrando con studiata precauzione un libro dal tavolo, l'ennesima occasione per assaggiare del silenzio, quando notò qualcosa di insolito in quegli sguardi segnati. Troppo chiarore per una stanza vuota.
Subito si voltò, corrugando la fronte. Senza spostare gli occhi, posò il libro di nuovo sul piano.

Dalle serrande emergeva nuova luce. Troppa, considerato che di norma erano abbassate. Si avvicinò alla fonte di quel bagliore, attendendosi il rumore, le voci. Al di là delle finestre era invece il silenzio.

Surreale, l'immagine di un sentore senza tempo scorreva nel suo cuore stanco. Non si udiva nulla che all'immaginazione ponesse il dubbio di un altro giunto al mare dell'esistenza. L'udito di un sordo, tuttavia, non è buon testimone. Decise quindi di indagare più in là del suono. Premette la propria carrozzina sulle sbarre che lo separavano dal vuoto, come a tastarne la consistenza. La realtà.
Al di sotto della vuota abitazione del passato, nessun piede solcava la strada, nessuna immagine di un qualche genere umano venuto a costruire costringeva l'occhio alla fede. Il dubbio atavico aveva preso forma, insinuandosi nella zona d'ombra dell'esperire.

Era solo?

Si allontanò da quel mondo sprofondato. Quel silenzio penetrava nella mente come un'eco che non si spegne. La veglia di una Stalingrado in macerie, mentre lento aleggiava un sentimento di minaccia.
Si alzò un vento furioso, nervoso e incontrollato, come i flutti di un oceano senza fondo. Le serrande tremarono di fronte a tale potenza. I vestiti stesi volavano via da finestre senza luce, simili a occhi di un essere ormai privo di vita. Panni lucenti cadevano come neve in una palla di vetro, come la bandiera a segnale di partenza. Qualcosa, e avrebbe dato l'anima per sapere cosa, fremeva nel lento decadere delle cose. Fece retromarcia arrancando nello sputo di terrazzo capitatogli in sorte. Doveva oramai comprendere dove diamine si fosse recata quell'umanità di cui non aveva bisogno.

Si diresse nuovamente in sala da pranzo, rivolgendo poi lo sguardo al libro che attendeva posato a caso sul tavolo. Avrebbe dovuto aspettare. Almeno il tempo di scendere le scale e comprendere. Afferrò le chiavi di casa e si diresse alla porta. La aperse, passando la soglia, ritrovandosi nella fresca aria delle scale. Meccanicamente, senza fare alcun caso al proprio agire, chiuse a chiave. Il freddo d'improvviso si consolidò, una coltre di timor panico giacente su ogni scalino. Guardò giù. La tromba delle scale, come una cassa di risonanza, amplificava quel vento ubriaco in lotta con l'immobile tacere dell'essere.

Come l'occhio del ciclone, stava, senza alcun pensiero di lui che guardava di sotto in preda ad una crescente ansia senza alcuna ragione.

Si diresse al macchinario, istallato sembrava qualche secolo addietro, che l'avrebbe disceso ai piani del vento. Abbassò il ripiano metallico che cigolando calò fino a giungere ai suoi piedi. La carrozzina -con lentezza- fu spinta fin sopra quel pezzo di metallo.

Premette il bottone del macchinario. Con un leggero sussulto il meccanismo si mosse, lasciando a terra un velo di polvere. Un ronzio si generò, come lo sforzo di un animale da soma, mentre in confusi dipinti, nella mente dell'uomo volteggiavano passati immemori e congetture meccaniche di quale destino avesse travolto l'al di fuori della memoria calcificata della propria esistenza.

Un uragano lontano emerse dalle note di automa di un lunedì, pomeriggio di pioggia dove una vita spezzata in silenzio scompariva tra le righe di una normalità incapace di rallentare. Alla radio nessun annuncio, ma una serie di note. Ne riemerse, dal momento che quel tornado dei tropici sembrava essersi avvicinato – traditore - di soppiatto. La scala ronzava e quel vento iniziava ad agitarlo. Combatteva contro le porte dell'edificio con noia e determinazione. Il suo ululare animava il pianoterra, smuoveva l'aria di ghiaccio. Un urto violento, e la ringhiera delle scale che improvvisamente tremava. L'uomo guardò le proprie dita, appoggiate al pannello di controllo, meditare il tradimento. Muovevano, come insetti agitati, al ritmo dell'idea di invertire il meccanismo, di tornare al sicuro della propria abitazione. Era ad un terzo del tragitto, ma il ronzare dell'agire automatico delle cose occupava quel tanto di testa salvo dal moto senza significato che gli agitava la zona più nascosta dell'animo. Nulla meritava quella paura. Un altro tonfo, il tonfo sordo di un vento iroso. Questa volta il cuore ebbe un leggero sussulto.

L'irrazionalità animale e feroce stava piazzando le proprie trappole. “Nulla. Merita. La tua. Paura” sussurrò all'imbecille che sentiva di essere in quel momento. Maledetta Marie Curie, pensò, lei e il suo amore per la scoperta. Nulla di cui aver paura, solo una nuova cosa da scoprire. E allora perché le cose amano giocare a nascondino? L'ululato divenne più forte, quasi a ringhiare. E intanto era a metà strada. Le dita furiose urlavano che il tempo necessario per la risalita attendeva cinico e sprezzante, come un dio pagano che tenesse la salvezza al limitare della portata umana. La pedana si fermò di colpo, di propria volontà. Neanche il tempo di fermare il respiro, che ripartì. Fuori doveva essere il finimondo.

Il vento lo sentiva sibilare nella propria mente, come una Russia tornata a saldare i propri conti. La finestra di fronte era aperta. Doveva fermare il meccanismo, non poteva sopportare di arrivare alla finestra. Si mosse a fermare la cosa, ma ormai era il momento. Fuori nevicava, e gli occhi di un bambino lo guardavano da Stalingrado. L'uomo rimase senza parole. Si nascose dietro le braccia, poi guardò di nuovo. La finestra era chiusa. Sentì un brivido correre lungo la schiena, mentre si accorgeva che la macchina, con la sua mente che volava, l'aveva trascinato ancora più giù.

L'urlo, come un tamburo, batteva sulla melodia monotona dell'automa di ferro. Il furore dell'al di fuori contava il tempo della discesa, mentre lo stomaco dell'uomo si contraeva. Il ritmo aumentò, per poi diminuire di nuovo. Alla vista dell'uomo quella forma che nella discesa aveva preso a roteare come uno schermo volto alla confusione prendeva ora le forme di un corridoio, alla cui fine porte a vetri lo dividevano da quella cosa senza nome. Finalmente la testa scelse per la risposta più ovvia, e premette con ostinazione sul bottone di arresto. Ma l'automa che giunge all'autocoscienza non risponde agli ordini che non comprende. Nell'era delle macchine, la macchina si interruppe di sua propria iniziativa. Era arrivata.

Discese dalla pedana. L'occhio del dio sembrava aver contemplato la sua esistenza. Il vento era ora nulla più di un phon che si allineava e amplificava, poi sostituiva al rumore della macchina. Si mosse di qualche centimetro in avanti, tenendo con una mano la ringhiera. Il vuoto e il gelo erano opprimente silenzio di fronte al furore di fuori. Che si abbatté in avvertimento sul vetro, scuotendolo. L'uomo si fermò.

“Nulla di cui aver paura” si ripeté. “Dopo la neve alla vita di certo tu non mi ammazzerai” pensò, diretto al quel rumoroso invisibile là fuori.

Si avvicinò ancora. Il vento prese ad aumentare. Fece fare un altro giro alle ruote della carrozzina, con suprema ostinazione. Ancora più vento. Un nuovo giro. Vento, giro, vento, giro, fino a che la sua mano si posò sulla maniglia della porta. L'Urlo attese per un attimo, come una mente impossibile che insensatamente iniziasse anche ad agire. Fu così che la porta si aprì a svelare i misteri del mondo.

Tirò lentamente la maniglia, e in quel momento la collera del dio si manifestava con la massima determinazione. Il rabbioso soffio gettava note ed immagini roventi sull'umano. Di scatto l'uomo spalancò la porta, mentre i decibel raggiungevano il loro acme, uscendo ad affrontare il nulla.

Come un viaggiatore accanito si protesse dalla tempesta. Qualche secondo. Poi comprese che qualcosa effettivamente mancava.

Aprì gli occhi all'accecante luce del giorno. Navigando nel biancore della propria pietrosa Itaca, non riuscì a vedere molto di più di una immagine franta di quel mondo fantasma in cui vigeva il silenzio. Rifletté un altro secondo. Quel qualcosa di mancante, in effetti, era proprio il ventoso gridare delle cose: l'urlo era decaduto come sostanza inerte. D'improvviso e senza alcuna ragione, quel soffiare di un immane non visto aveva smesso di essere. Così, di tale improvviso un lattiginoso oblio si era protratto tra gli alti edifici della civiltà.

Col silenzio alla sua destra mosse ancora qualche passo nell'irritante vuoto di umanità che si estendeva di fronte alla sua vista. Dalle labbra riarse neanche gli venne in mente di chiedere se nessuno ci fosse, tanto l'abbandono poggiava su tutto il visibile rimasto in attesa il proprio inconfondibile peso. Si guardò attorno come un bambino sconsolato, mentre si spingeva al di là degli edifici, il sole che scottava come sulle spiagge della sua infanzia. Il pietrisco sotto le ruote sgomitava – comunque - con il moto di mare e di sabbia di secoli addietro.

Percorse le strade, con sospettosa lentezza, incontrando solo ombre latenti del proprio passato. Dall'orizzonte di cemento, infine vide stagliarsi una figura. Sul finire della strada, come un fantasma, riluceva una vita dispersa, sul punto di svanire nell'aria torrida. Un signore delle marionette l'aveva appesa lì a far da immagine del mondo, sembrava. E lei, placida, stava. Poi, ad aver pietà dello sforzarsi del sole nel dissolverla, iniziò a spostarsi. L'uomo tese una mano con un mugugno, poi scosse la testa, cominciando a spingere sulle ruote. Con la povera lingua stretta tra i denti si diede all'inseguimento dell'evanescente immagine che, di suo, non sembrava avere alcuna intenzione di attenderlo.

Giunto all'angolo dietro il quale la figura si era ritirata, l'uomo si affrettò a setacciare con lo sguardo in ogni possibile anfratto. Nulla. La figura sembrava essersi dissolta.

Poi, d'improvviso, come l'ombra che non voglia più andare via, un uomo si erse da un angolo nascosto della via. Gli indumenti di soldato non lasciavano dubbio a ciò che la mente aveva già rifiutato in partenza.

“Tu...”
“Già. Strano vero?” disse l'uomo, grattandosi la fronte in maniera singolare.
"Tu... sei morto”.
“All'incirca”.
Il vecchio indietreggiò un secondo. Un soldato della Seconda Guerra Mondiale non torna in vita. Si diede una manata sulla testa.
“Maledetto Alzheimer. O quello che è”.
L'uomo rise.
“Alzheimer? È quello che pensi che sia?”
“Nulla d'altro”.
“Altro... credi esista un “Altro”?”
“C'è sempre un altro”.
“Già... come in Russia. Altro, altri, non sembrano neanche più cose e uomini”.
“È la guerra. E tu dovresti essere morto”.
“È sempre la guerra, la lotta, la battaglia. Perché combattevamo?”
“Per un pazzo”.
“Si fotta il pazzo. Dico noi”.
“Combattevamo per noi”.
“Quanta follia”.
“L'amore?”
“L'odio. E anche l'amore”.
“Non ti capisco. E comunque dovresti essere morto”.
“Finché ci sarà amore ci sarà anche odio”.
“Questo lo sapevo senza che ti rialzassi dalla neve”.
“Stupido”.
“Stupido?”
“Sì. Non hai ancora capito. Amare i nostri È ammazzare i loro. Nostri non significa nulla, è un'astrazione, un'illusione persa tra le pieghe di una solitudine incontrollabile. È l'etichetta di un prodotto scaduto mangiato a forza. È una parola. Perché pensi questa parola sia stata partorita dalla mente dell'uomo?”
“La natura umana lo vuole”.
“Parlami di qualcosa che esiste davvero”.

"Bene, credi di intimorirmi con quell'aspetto da fantasma del Natale passato? La natura non esiste? Sto parlando con un uomo morto settant'anni fa, a migliaia di chilometri da qui. Pensi davvero di poter pontificare sull'esistenza?”

“Non siamo che configurazioni di un unico esistere. Davvero credi il tuo misero concettualizzare dietro parole qualcosa come una dimensione altra dall'uomo possa contare più di anni passati nel divorare della fame. Credi che tempo e spazio siano di qualche interesse, se la mente afferma chiaramente l'esistere di me e di te, qui, in questa strada vuota e senza senso? Credi che le tue piccole e misere parole, uomo, possano salvarti dalla spudorata coscienza di questo configurarsi delle cose attorno ai tuoi sensi? Mi deludi...”

“Le parole mi danno un perché...”

“Non recarti alla ricerca di un perché che non esiste. Non chiedere un significato a cose mute che con inerzia rotolano per i pendii del cambiamento”.

“Non vi è alcun senso?”

“Non chiederlo ai morti. Chiedilo ai vivi”.

“Cosa dovrei chiedere?”

“Chiedi di loro. Attendi con ferocia la scossa di un legame che nasca tra esseri umani, non tra le miserie dell'alleanza che non è che il frutto acerbo dell'esperire. Lascia che l'umanità fluisca. Perché l'odio non è che il timore che i dolori dell'esistenza degli uomini possa far esplodere il cuore di chi guarda negli occhi e discende nell'anima dei suoi simili. Cerchiamo un Dio per pregare delle sofferenze altrui. Dilaniano il cuore, che un Dio lo immaginiamo un essere piangente, se lo rivestiamo del sentire degli uomini. Non avere pietà di ciò che senti. Abbi pietà delle cose”.

Il vecchio rimase stupefatto. Una melodia aveva disgelato quella terra desolata, per un solo momento. Uno sguardo alle nuvole che, come tendaggi, coprivano un cielo ora leggermente più blu.

Vagò, per ore, in mezzo ai vicoli bui del pensiero. L'uomo era scomparso mentre egli volgeva gli occhi al cielo. Un alito di commozione ora si svolgeva tra le strade vuote. Ormai si era arreso a quella consapevolezza. Non domandava il perché. Le oscure ragioni del suo peregrinare avevano tinto il cielo e non ne sapeva la ragione.

Domandava solo quale ironico destino l'avesse congiunto al rivelarsi del suo fluire nel tempo come soggetto di un inalienabile volere, solo ora che l'oggetto del suo amore fosse definitivamente scomparso, arso dal sole. Camminava nel centro di una viuzza del paese sotto la collina, vecchio ritrovarsi delle anime in festa. Lo sguardo fisso di fronte al proprio incedere meccanico, la costrizione di uno shock della mente. Iniziò a vagare tra gli abissi del ricordo. Vide un uomo distrutto dal dolore incedere faticosamente dietro ad una bara. L'agitarsi di un ritmato corteo. Poi la caduta. Non sarebbe più stato in grado di camminare, senza la volontà di farlo. Vide la vita ancorarsi alla macchina.

Improvvisamente, il meccanismo onirico osservò rompersi i propri equilibri. L'Uomo avvertì una presenza alle proprie spalle. Rimase paralizzato, in attesa di sentire qualcosa, nel più pieno terrore. Forse giungeva la propria ora. O forse le allucinazioni cingevano nell'ultimo assedio la mente. Un lieve peso si posò sul suo petto. La creatura doveva averlo cinto. Era questo il preludio del suo finire?

Inaspettatamente, la creatura, con un affetto che non aveva mai sentito in vita sua, lo abbracciò, da dietro le spalle, poggiando la propria testa accanto alla sua. Di nuovo, non ebbe il coraggio di guardare. Un lieve bacio sulla tempia. Si voltò in cerca di risposte, ma una mano sembrò posarsi sulla sua guancia, portandolo ad osservare la collina silenziosa e buia nelle cui piazze tanto tempo prima nugoli di esseri umani si ritrovavano in festa. Un enorme fragore lo spaventò, mentre scie di luce affascinavano e catturavano il suo sguardo sgorgando colori nel cielo. Un tremore nell'animo lo scosse nel profondo. Una nuova esplosione. Ora ne era certo. Erano i fuochi d'artificio della festa. In controluce, come le onde del mare che riflettono i bagliori, ognuna a modo suo, stava l'umanità perduta. Non poté non rimanere stupefatto di tanta bellezza.

Il Silenzio si mescolava ora con la caotica essenza delle anime. Ne nascevano fuochi d'artificio, come evoluzioni di una costante marea che instancabilmente rinasce dalle proprie ceneri.

Sentì una mano poggiarsi sulla schiena, e le più belle parole possibili fluire da distanze incalcolabili: “Cammina”. 

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