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Dalla Siria all’Iran: la via d’uscita targata Putin

Nel ginepraio siriano l’intervento russo sembra essere stato risolutivo.

Risolutivo nello stoppare (almeno per il momento) quello americano che a dire il vero è stato ventilato con così tanta titubanza da far pensare che, in fondo, nemmeno gli Stati Uniti lo volessero davvero. Qualcuno perciò imputa al presidente democratico una pericolosissima incertezza (pericolosa in quanto insinuerebbe negli avversari politici sullo scacchiere globale l’idea di poter muovere impunemente anche altre pedine); altri invece riconoscono a Barack Obama una sua saggezza capace di stemperare l’impulsiva necessità di “punire i trasgressori” che hanno superato la famosa linea rossa (il no categorico all’uso di armamento non convenzionale) che lui stesso aveva tracciato, imitando la “linea sulla sabbia” del deserto saudita tracciata dal vecchio Bush padre.

Poi ci sono quelli che - a prescindere - condannano l'intervento americano come se fosse già avvenuto (e si indignano per un Nobel per la Pace dato, anche lui, a prescindere), ringraziando Putin per il provvidenziale intervento "pacifista".

La questione dei gas - che siano stati usati lo dice anche l'ONU, ma nessuno può dire con certezza da chi - ha portato in primo piano le prioritarie esigenze di sicurezza di Israele che finora ha adottato un profilo bassissimo nella questione siriana.

Qualunque congettura sulle attività “coperte” di Israele in Siria - che vadano al di là di una scontata presenza di “occhi e orecchie” un po’ ovunque - si infrangono sull’ovvia considerazione che lo stato ebraico non avrebbe in realtà alcun interesse a sostenere la ribellione (ormai ampiamente infiltrata da elementi islamisti più pericolosi per lui più dello stesso regime di Assad). Né che abbia alcun interesse a giocarsi qualcosa a favore del suo nemico storico tuttora ufficialmente in stato di guerra con lui (per quanto silente).

Al contrario il protrarsi di una guerra civile logorante per le parti in causa, per quanto pericolosa come ogni forma di instabilità cronicizzata ai propri confini, potrebbe alla fine portargli un vantaggio non indifferente secondo la logica che se i tuoi nemici si azzuffano fra di loro tu te ne puoi stare comodamente alla finestra a guardare senza rischiare niente e ne uscirai comunque più forte di prima.

In caso di conflitto allargato il paese ebraico sarebbe invece, sicuramente, l’obiettivo primo di ogni ritorsione e si troverebbe in prima linea in un conflitto generalizzato dalle dubbie prospettive. Tutta da dimostrare infatti - e non a caso - la presunta (e molto sbandierata da certa stampa) attività interventista sul congresso americano della cosiddetta "lobby" pro-Israele.

Di cui fra l'altro, al di là di certe fregole nostrane, perfino Noam Chomsky, un intellettuale di solito "molto poco simpatetico con i governi di Israele" ha detto: "l’influenza di Gerusalemme sulla politica americana è stato generalmente “sopravvalutato”.

Ma mentre gli sponsor “minori” (sauditi, turchi, iraniani, libanesi, sceicchi del golfo eccetera) dei due, o più, schieramenti contrapposti sono stati lasciati liberi di agire con rifornimenti di armi convenzionali e munizionamento, con soldi a palate e istruttori, fino all’invio di uomini da prima linea, l’uso dei gas nel conflitto, indipendentemente da chi li abbia usati, altera il sostanziale e sanguinoso equilibrio sia fra le forze in campo, sia fra gli sponsor internazionali “maggiori” che sono così chiamati ad intervenire direttamente.

Perché sull’uso di gas potenzialmente devastanti Israele non può limitarsi a guardare dalla finestra godendosi lo spettacolo. Quello che ho definito il silenzioso “campanello d’allarme di una possibile mossa israeliana ha fatto immediatamente agire la superpotenza americana con un non-intervento che ha avuto comunque la capacità di risvegliare la sonnolenta comunità internazionale; a partire dal Papa per arrivare agli ayatollah iraniani. Fino ad una Russia ancora gongolante per il sublime schiaffo che è riuscita ad assestare al presidente americano nel caso Snowden.

LEGGI ANCHE: L'INTERVENTO IN SIRIA E IL SILENZIO DI ISRAELE

L’intervento di Putin non solo ha aperto uno spiraglio di soluzione “pacifica” nel guazzabuglio siriano (però chi mai fermerà le milizie qaediste se non una repressione brutale e spietata?), ma avrebbe ridimensionato apparentemente le pretese americane. 

In realtà sembra aver semplicemente fatto quello che la minaccia USA di intervento gli ha imposto di fare: intervenire a sua volta, dopo due anni e mezzo di ostruzionismo più o meno esplicito, per gettare le basi di una trattativa che togliesse ad Israele la sgradevolissima sensazione di dover fare da solo per eliminare dal panorama bellico quei gas che qualcuno, prima o poi, avrebbe potuto pensare (seriamente) di sparare contro il suo territorio.

Come è noto, Israele non è mai pericolosa davvero finché urla, strepita e batte i pugni (come è stato finora riguardo al nucleare iraniano). Lo diventa quando tace e si sente con le spalle al muro davanti ad un pericolo reale. Soprattutto durante il Giorno dell'Espiazione appena iniziato, anniversario di quell'infausto Yom Kippur del '73, quando rischiò di brutto avendo confidato troppo in una tranquillità solo apparente.

I segni ci sono già stati, come l’attacco devastante contro le armi dirette verso Hezbollah; troppo pericolose, evidentemente. Come pericoloso era il reattore siriano in costruzione che i jet con la stella di David hanno distrutto nel 2007 senza che nessuno tentasse nemmeno lontanamente una reazione.

Il quadro siriano sembra essere arrivato a questo punto.

L’uso dei gas non è andato oltre l’esibita linea rossa di Obama, ma oltre quella silente tracciata a Tel Aviv. E allora interviene di corsa la Russia, l’altro sponsor “maggiore” chiamato in causa, con la (relativamente) credibile proposta di ritirare le armi non convenzionali dal conflitto per metterle sotto il controllo internazionale. Manovra più politica che praticabile, ma comunque significativa.

Vladimir Putin, scrivendo al New York Times, si toglie la soddisfazione di dare bacchettate a destra e a manca cercando di apparire come il vero difensore della legalità internazionale (ma chissà che ne pensano i ceceni). Lezioncine che non risparmiano il presidente USA e la supponente idea americana di essere "eccezionali" ma che non fanno certo dimenticare a nessuno che "dall'inizio del conflitto, la Russia ha posto il veto o bloccato qualunque azione del Consiglio di Sicurezza che potesse portare aiuto ai civili siriani o che ponesse gli autori degli abusi di fronte alle loro responsabilità" come scrive Anna Neistat, attivista russa di Human Rights Watch.

Il leader russo ha prima difeso con determinazione il suo protetto Bashar al Assad dall’accusa infamante di aver gasato il suo stesso popolo: “Nessuno mette in dubbio che il gas sia stato utilizzato in Siria. Ma vi è ogni ragione per credere che non sia stato utilizzato dall'esercito siriano, ma dalle forze di opposizione, per provocare l'intervento da parte dei loro potenti protettori stranieri, che sarebbero schierati con i fondamentalisti".

Poi insinua la frase criptica, buttata lì quasi per caso: "I rapporti che indicano che i militanti stanno preparando un altro attacco - questa volta contro Israele - non possono essere ignorati”.

A buon intenditore poche parole. Israele è dichiaratamente nel mirino e se i "gas" governativi saranno ritirati, altrettanto dovrà essere fatto con quelli degli insorti; qualunque cosa si intenda con questo. Magari che Assad dovrà restare in sella (anche se ormai ampiamente screditato e indebolito).

Se la querelle siriana non è altro che la prova generale di quella che si giocherà, prima o poi, con l'Iran, potremmo ipotizzare che ormai le carte siano sul tavolo. Sia che la “linea rossa” tracciata da Israele (quella vera, non quella sbandierata) deve essere presa sul serio, sia che la proposta di soluzione della crisi prossima ventura potrebbe essere avanzata nuovamente proprio dai russi, se saranno disposti a giocarsi tutta la loro credibilità.

Come dice Putin “Se siamo in grado di evitare la forza contro la Siria, questo migliorerà il clima negli affari internazionali e rafforzerà la fiducia reciproca. Sarà un nostro comune successo e aprirà la porta alla cooperazione su altre questioni critiche”.

In tutto ciò, Teheran ha sorprendentemente fatto gli auguri di buon anno agli ebrei ed ha deciso di abbandonare, rigettandole, le affermazioni negazioniste del suo premier “precedente”. Presentandosi sulla scena internazionale con un nuovo presidente e nuovi toni, molto più concilianti.

In politica estera i segnali sono sempre un po’ criptici e noi possiamo solo prendere appunti cercando di capire, ma forse la drammatica partita siriana finirà portando con sé anche la fine della ben più pericolosa questione iraniana e potremmo esserne tutti contenti (siriani a parte).

La contropartita è il ritorno in grande spolvero della Russia post-sovietica sulla scena globale dove sta togliendo agli Stati Uniti l’idea di poter essere davvero l’unico e incontrastato gendarme del mondo. Dopo una trentina d’anni il sogno onnipotente di Ronald Reagan sembra ormai destinato a tramontare definitivamente sul deserto mediorientale.

Ma mentre i russi salvano il soldato Assad, agli americani intanto sembra riuscire un colpo da maestri: costringere i russi stessi a proporre di smantellare l'arsenale chimico del loro amico siriano; e senza sparare nemmeno un missile piccolo piccolo.

Se Assad poi farà le bizze o cercherà di fare il furbo, difficilmente Putin potrà giocare di nuovo il veto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dopo essersi così esposto come "ideatore unico" della soluzione politica.

Insomma Putin apparirà pure come il "pacifista" in questa occasione, ma non è che Obama dopotutto si stia meritando quel Nobel elargito a suo tempo con tanta generosità?

 

Foto: Freedom House/Flickr

 

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