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Come sfuggire alle celebrazioni retoriche della Grande guerra

Lavoravo da mesi a un progetto di un quaderno sulla Grande Guerra. Mi immaginavo naturalmente che ci fossero alcune celebrazioni deformanti a cui dover rispondere, ma appena iniziato il 2014 (potenza degli anniversari in cifra tonda) è cominciato uno tsunami di dossier, interviste, articoli che avranno come involontario effetto quello di provocare una saturazione e un rifiuto, sia che siano dignitosi come quello di Ceronetti che ha inaugurato l’anno nuovo su “Repubblica”, sia e soprattutto se sono superficiali come quelli di Gianni Riotta, che cura anche un’intera sezione di RAI Storia che ha come “esperti” personaggi impresentabili come il Ministro della Difesa Mario Mauro o Gianfranco Fini, o il politologo ed economista Moisés Naím.

A proposito, non avevo collegato, ma questo spiega tante cose: non ci si può sorprendere se un canale culturale che ha simili esperti, produce poi trasmissioni come quella che ho appena segnalato in "RAI Storia" banalizza Trotskij. Per fortuna dimentica Rosa e Lenin…

Che pensassi ormai sistematicamente alla ricostruzione della Grande Guerra poteva essere intuito dal visitatore accorto del sito vista la frequenza con cui ho inserito articoli che si collegavano più o meno direttamente ad essa: ad esempio Il tricolore sui forconiAncora sul tricolore e la guerraL’Italia in Albania (e dintorni) Guido Ceronetti e la guerra.

Ma inizialmente mi preoccupavo soprattutto di ricordare gli orrori con cui quella guerra era stata gestita da tutti i belligeranti, che avevano massacrato prima di tutto il loro stesso popolo. Invece non è questo aspetto che viene negato, anche se viene presentato diluito in una rievocazione commossa ed eroica. Quello che manca completamente è la comprensione del carattere fondante di quella guerra, che aprì effettivamente un “secolo lungo”, che non accenna minimamente a finire.

Una guerra per cui fu per la prima volta necessario ottenere (o estorcere) il consenso di una grande parte della popolazione. Questo non era stato necessario nelle guerre precedenti, soprattutto quelle coloniali, perché condotte lontano dagli osservatori, da corpi relativamente poco numerosi e basati su un largo uso di mercenari locali: gli spaventosi crimini che le caratterizzarono potevano essere più facilmente occultati.

Relativamente circoscritte ed affidate ad eserciti professionali di dimensioni modeste erano state, a parte quella del ’48, frutto della grande ondata rivoluzionaria che fu definita “la primavera dei popoli”, le guerre risorgimentali del 1859 o del 1866. Il Verga ha descritto bene ne I malavoglia la scarsa consapevolezza di chi veniva arruolato e mandato a morire a Lissa, senza aver mai avuto coscienza di essere italiano, avendo conosciuto sempre e solo un limitato orizzonte meno che provinciale, tra Aci Trezza e Catania…

Giustamente lo storico inglese Christopher Clark nell’editoriale del Dossier sulla “Grande Guerra” pubblicato da “La Stampa” insieme al Pais, le Monde e altri giornali europei, cerca le premesse del conflitto mondiale nella guerra di Libia: “un punto di svolta (uno tra tanti) sulla strada verso una guerra che avrebbe consumato prima l’Europa e poi gran parte del mondo”.

Una guerra che “innescò la catena di attacchi opportunistici all’Europa ottomana sud-occidentale conosciuti come Prima guerra dei Balcani”. Una guerra che a Clark sembra anticipatrice soprattutto perché inaugurò l’uso militare dell’aviazione (bel primato italiano!), e a me sembra invece anticipatrice soprattutto di una sopraffazione di una minoranza faziosa (finanziata dalla grande industria siderurgica e cantieristica e appoggiata dalla grande stampa) su una maggioranza parlamentare incerta od ostile, sopraffazione che si riprodurrà nel maggio 1915, e fornirà poi la sceneggiatura per la Marcia su Roma.

A chi si stupisce ogni volta, e considera “inaudito” l’uso scandaloso delle bugie di guerra, come quelle che negli ultimi anni hanno “giustificato” le due guerre contro l’Iraq e l’invasione dell’Afghanistan, ecc., ho sempre ricordato che non era affatto una novità. Basta pensare ad esempio a come l’opinione pubblica italiana nel 1911 fu ubriacata con le balle sulle immense ricchezze della Libia, che non c’erano (il petrolio, nonostante alcuni geologi italiani avessero intuito la sua presenza già negli anni Trenta, fu “scoperto” solo dopo la seconda guerra mondiale).

In particolare alla vigilia dello sbarco a Tripoli si annunciavano inesistenti riserve di zolfo a fior di terra, la cui mancata conquista avrebbe messo in pericolo le miniere siciliane. Di zolfo in Libia non ce n’era un grammo, e comunque, qualora ci fosse stato, la sua conquista avrebbe accelerato la crisi delle miniere siciliane, ma l’opinione pubblica abboccò facilmente a questa incredibile leggenda metropolitana. Altre balle giornalistiche parlavano della sovrabbondanza di terre fertili e di acqua, e soprattutto del desiderio della popolazione di diventare italiana: per cui quando a Sciara Sciat i libici si ribellarono ad alcune vessazioni dei militari occupanti (comprese le molestie alle loro donne) furono presentati come ribelli, traditori e ingrati.

Tornando alla Grande Guerra, è sintomatico che una parte degli interventisti italiani pensasse inizialmente a rompere la neutralità ma per schierarsi con gli Imperi Centrali con cui esisteva già un’alleanza, prima di orientarsi verso l’Intesa, una volta intuito o saputo qual’era la posta in gioco della guerra (le promesse di compensazioni territoriali anche coloniali). Era la dimostrazione che il primo obiettivo della guerra, era la guerra in sé. Ne avevo scritto recentemente in Ancora sul tricolore e la guerra, ricostruendo il Patto di Londra.

Tuttavia gli interventisti rappresentavano una minoranza rumorosa (anche se amplificata dai media) e hanno potuto avere successo solo per la viltà dell’opposizione socialista, e l’appoggio deciso di un ceto politico ambizioso e di gran parte dei vertici dell’esercito. Ma se tutti i paesi erano entrati nel conflitto impreparati, con l’illusione di avere armi più efficaci di quelle degli avversari, e il piano strategico giusto per vincere la guerra in pochi mesi, per l’Italia, che scendeva in campo dopo quasi dieci mesi di verifiche che la guerra reale su tutti i fronti era ben diversa da quella elaborata a tavolino, l’impreparazione soprattutto militare ma anche sul piano dei rifornimenti e della logistica risultò più grave che in qualunque altro paese, Russia esclusa, e provocò subito perdite enormi. In uomini e in ricchezze sperperate.

La causa era la famosa “stupidità militare”, descritta efficacemente da un famoso libro di Charles Fair (Storia della stupidità militare. Da Crasso al Vietnam) apparso da Mondadori nel lontano 1975, e sempre attuale, anche se avrebbe bisogno di molte integrazioni con gli esempi forniti dalle guerre successive. Alla base, in Italia come in ogni altro paese, la convinzione dell’inadeguatezza del governo civile radicata negli alti comandi militari.

Un esempio classico nella Grande Guerra fu l’ostinazione di Luigi Cadorna nel riproporre dal maggio 1915 fino al 24/25 ottobre 1917 (la rotta di Caporetto) la stessa assurda tattica della ripetizione ossessiva dell’attacco frontale, nonostante la carenza spaventosa di artiglieria, di mitragliatrici, di equipaggiamento.

Quando a Caporetto una nuova tattica realizzata da una piccola forza scelta di Alpenjäger (tra cui emerse un giovane Erwin Rommel, futura “volpe del deserto”) specializzati nell’infiltrazione tra le linee avversarie, ma anche appoggiati da una poderosa e precisa artiglieria coadiuvata da una efficace ricognizione aerea, riuscì a scardinare le linee italiane, tagliando gran parte dei collegamenti e provocando la fuga caotica di centinaia di migliaia di soldati italiani rimasti senza ordini, la reazione dell’incapace Cadorna fu infame: calunniò i poveri soldati mal diretti, accusandoli di viltà e attribuendo la responsabilità della sconfitta all’inesistente propaganda socialista e ai parlamentari neutralisti.

Per arrestare la fuga, ripresero su larga scala le fucilazioni senza processo e le decimazioni. Episodi simili o più gravi (con insubordinazione di massa) erano accaduti pochi mesi prima tra le truppe francesi che attaccavano loChemin des dames, per non parlare della Russia in quello stesso anno. Di conflitti tra vertici militari e politici, se ne trovano molti altri, in varie epoche. E ho sentito d’altra parte io stesso con le mie orecchie, non molti anni fa, accuse alla “incompetenza dei civili” da un alto ufficiale con velleità politiche a proposito delle prime missioni internazionali nel Libano... 

Insomma di materiale per una controstoria della guerra, ce n' è moltissimo. Cercherò di organizzarlo in modo che il libro non sia soffocato dalla marea di chiacchiere retoriche delle celebrazioni commissionate ai pennivendoli. E per questo, preannuncio, per un certo periodo dovrò ridurre gli articoli di attualità, resistendo alla tentazione di inseguire “il fatto del giorno” per concentrarmi invece sulla stesura del libro. Tanto più che ormai c’è in funzione, molto più ricco di quanto fosse mai stato per lo meno negli ultimi anni di “Sinistra critica”, il sito di “Sinistra anticapitalista”, a cui rinvio volentieri tutti quelli che sono abituati ad aprire da anni il mio sito.

 

 

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