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Carceri e suicidi: i carnefici consapevoli

Un atto come quello del suicidio è spesso l'epilogo di una ferita alla dignità dell'individuo. L'ultimo suicidio in ordine di tempo è accaduto a Poggioreale. I compagni di cella hanno riferito di locali pieni di formiche e blatte. Ma la stessa disperazione è uguale a molti altri casi. Seppure l'amnistia è diventata necessaria ed irrinunciabile (preso atto del livello di emergenza) è precisa responsabilità di tutti gli operatori ricercare una soluzione stabile nel tempo al sovraffollamento delle carceri. Esiste la soluzione, ma viene ignorata: probabimente per convenienza

Il suicidio è il gesto estremo di un individuo. Declina la parola “fine” in tutti i suoi possibili significati e non lascia spazio ad ambiguità. Ma pure la “reazione al suicidio” è altrettanto estrema: lo rifiutiamo. O meglio rifiutiamo di condurre a razionalità un evento che irrazionalmente “non vogliamo conoscere”. Ciò che le neuroscienze classifica come Tabù. Ma questa è solo la comprensibile reazione istintuale dell’uomo-animale, non certo quella che dovrebbe essere propria di una “specie” che evolve verso la conoscenza.

Diversamente ci saremmo arresi alla natura soprannaturale del fulmine. Di fronte ad un suicidio la nostra immediata considerazione suona sempre in questi termini: “Chi lo può dire cos’è successo, può essere stato un raptus, un momento di totale perdita del controllo. Una fatalità”. Il raptus è certamente un evento che la scienza psichiatrica prende in seria considerazione, ma nella nostra “ignoranza” scientifica pretendiamo che esso sia sempre una parentesi, autonoma, che chiude una vita “normale e patologica” per aprire la porta della morte. Ecco un ulteriore segnale dell’irrazionale “Rifiuto” all’evento, piuttosto che un ragionamento coerente alla realtà. Il tema è motivo di riflessione perché è ormai cronaca quotidiana il suicidio dell’imprenditore, come quello dell’operaio disoccupato o del clochard “suo malgrado” (posto che possano esistere consapevoli scelte di emarginazione).

Così come ormai è entrata nel novero dell’ordinario il suicidio quasi quotidiano dentro le mura di un carcere. Limitandoci a grattare solo il primo strato di crosta possiamo scoprire che per queste persone, evidentemente, il valore della loro dignità persa e calpestata è certamente maggiore del denaro e della loro stessa sopravvivenza. Ma questo è solo il primo strato di ruggine che si è formato tra la realtà e le coscienze di ciascuno. La dignità è un bene, un valore che appartiene all’essere stesso del soggetto, tutelato dalla Costituzione e delle Convenzioni Internazionali. Ledere la dignità di una donna o di un uomo equivale, come effetto, ad un colpo di pistola o ad una coltellata. L’unica differenza è la parte che subisce la ferita: in un caso la sfera psichica; nell’altro quella fisica. Per qualcuno, poi, quella lesione alla sfera psichica può essere così devastante, magari per una predisposizione genetica o altri fattori concomitanti, da condurlo al suicidio. Chi si è trovato un tumore al polmone per aver respirato dall’età quindici anni polvere di amianto è stato considerato vittima di un reato anche se fumava e conduceva una vita scarsamente sana. Si chiama “nesso di causalità” ed è scritto nel nostro codice penale: “Le cause preesistenti, simultanee e sopravvenute… non escludono il nesso di causalità fra omissione ed evento”. Ma a guardare la cronaca giudiziaria – come pure le statistiche giudiziarie – non sembra proprio che quei soggetti privati di ogni dignità abbiano diritto di avere un colpevole per la ferita ricevuta. Non mi sorprenderei se qualcuno affermasse: “Ma non possiamo mica pensare che Equitalia sia responsabile della morte di un imprenditore che si è tolto la vita”.  Per la verità qualcosa di contrario l’ha proprio detto il più alto dirigente dell’Agenzia delle Entrate: “Dobbiamo fare attenzione ed ascoltare” . La migliore traduzione per la coscienza dovrebbe avere un altro suono: se le nostre azioni sono responsabili potremmo evitare certi fatti. Ma se si intende realmente comprendere la gravità della situazione e cosa vuol dire “suicidio” è necessario “scendere” verso gli inferi. Nel mondo dove la dignità non abita e non ha mai abitato: il Carcere.

L’ultimo suicidio, in ordine di tempo, è avvenuto a Poggioreale. I quotidiani on line hanno raccontato le condizioni di detenzione di quell’uomo: una cella di sedici metri quadrati per nove persone, un unico gabinetto dietro un muretto dove ci si andava con un ombrello per evitare che in testa cadesse l’acqua che perdeva dall’alto ed i relativi calcinacci. Tale perdita allagava completamente il pavimento e quindi la cella doveva essere condivisa con formiche e blatte, costringendo i “delinquenti” a prepararsi e scaldarsi il cibo sul letto.

In molte carceri italiane un momento di conforto ai detenuti è dato dai gatti. Si infilano agevolmente tra le sbarre e, soprattutto, tengono lontani i topi.

“Attenzione”, “cura” e “responsabilità” dovrebbero contraddistinguere l’attività di coloro che per legge assumono un dovere di tutela e non si tratta di un significato etico, ma di un concreto valore giuridico.

L’elenco delle disattenzione, dell’incuria e dell’irresponsabilità è infinito. Esiste un Ministero della Giustizia che è organizzato in Dipartimenti che specificatamente si occupano dei profili di organizzazione e gestione delle Carceri. I dirigenti responsabili sono perfettamente consapevoli della situazione e loro, o i soggetti a ciò delegati, avrebbero il dovere di intervenire affinché le condizioni di vita dentro gli Istituti siano rispettose della salute e dell’igiene delle persone ivi rinchiuse. Ancora prima della loro dignità. Queste persone sono consapevoli che l’intero personale degli agenti di custodia è insufficiente ed inadeguato. E sono altrettanto consapevoli che turni massacranti e stressanti logorano le capacità psichiche di “tenuta” con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Una conoscenza, altrettanto completa, è propria dei Direttori delle Carceri e dei Magistrati di Sorveglianza (le cui funzioni sono di evidenza nel nome stesso). E’ doveroso pretendere, in capo al soggetto che assume di aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità, un gesto di precisa e concreta “dissociazione” di fronte alle morti che quelle situazioni determinano. Mai nessuno si è, però, dimesso per questi motivi.

Non minori le responsabilità della politica. Quella di oggi come l’azione della precedente. L’irresponsabilità è, in questo caso, assoluta. Una tale emergenza si deve affrontare con un provvedimento di amnistia ed indulto. Ma non basta! Tra pochi anni sarà necessario un altro provvedimento di clemenza. Naturalmente un tale argomento è ignorato dal Parlamento ed a maggior ragione è escluso dal novero delle “promesse elettorali”. Sarebbe impopolare! O meglio: rischia di spostare le intenzioni di voto! Ed intanto qualcuno si impicca tra blatte e formiche. Affinché venisse deciso l’ultimo provvedimento di indulto (2006) fu necessario l’intervento, davanti alle Camere riunite, di un Capo di Stato Estero: il Papa. Se lo chiede il Papa nessun potenziale elettorale può assegnare colpe e far perdere voti.

Lo stesso vale per ciò che è necessario fare per evitare il ripetersi di tale insostenibile situazione. Anzi peggio, perché nemmeno il Padre Eterno riuscirebbe a convincere la nomenclatura politica a riformare giustizia e sistema penitenziario.

La legalizzazione o somministrazione controllata delle droghe pesanti avrebbe, ad esempio, numerosi vantaggi. Innanzitutto un duro colpo al mercato illegale in mano alle organizzazioni criminali. In secondo luogo una drastica contrazione di tutti quei reati legati alla tossicodipendenza: furti, scippi, rapine. Non ultimo la correlativa liberazione di risorse nella Giustizia che risulterebbe meno gravata di lavoro. Sono però più numerosi gli svantaggi. Tutti i politici, amministratori locali e dirigenti pubblici in qualche modo onerati di un debito di riconoscenza verso le organizzazioni criminali, ne patirebbero un ingente danno. Immaginate una cosa simile a Catanzaro prima del commissariamento. Poi tutti coloro – tra i quali comprendere oltre uomini politici anche ministri di culto – che ritengono inammissibile lo “stato spacciatore” che incentiva l’uso della “droga tra i giovani”. Al di là del merito della questione (l’Olanda e gli altri Stati che agiscono in tale direzione hanno ottenuto risultati opposti) viene naturale chiedersi come mai questi personaggi non abbiano nulla da dire – ed anzi sono concorsi alla loro approvazione – sulle norme che prevedono uno “Stato biscazziere/casino”, che non vieta la vendita delle sigarette, che non interviene per decenni su industrie che hanno inquinato e seminato morti atroci. Ciò senza considerare che il mantenimento di una normativa, come quella attuale in materia di droga, è fonte di guadagno, lecito, per un numero elevato di persone. Le Comunità Terapeutiche organizzate come vere e proprie multinazionali (che dovrebbero essere, invece, drasticamente ridotte a seguito di un intervento di legalizzazione); il numero elevatissimo di avvocati ai quali si è consentito l’accesso alla professione che, correttamente, assumono la difesa di persone prive di reddito ed i cui costi sono, quindi, sostenuti dallo Stato. Oltre ad una macchina amministrativa, intrisa di burocrazia, che entra in azione allorché il tossicodipendente viene fermato con una dose personale e non penalmente rilevante. 

Un tale provvedimento, ben più di una amnistia, consentirebbe un rapido calo del numero dei detenuti che non avrebbero, inoltre, necessità di tornare a delinquere per procurarsi la sostanza stupefacente.

Forse sarebbe anche opportuno ripensare alla funzione della pena detentiva ed alla sua concreta efficacia. Questo soprattutto nel rispetto delle vittime dei reati che nella maggioranza dei casi lo sono due volte: oltre ad aver subito il danno sono pure abbandonate dallo Stato. Il carcere deve essere riservato ai fatti più gravi, lesivi della collettività ed idonei a determinare pregiudizi irreparabili. Per le ipotesi meno gravi è necessario comprendere – in termini rigorosamente laici – che ad un male cagionato è indispensabile rispondere con atti di riparazione. Il risarcimento che attende chi ha subito un reato (ovviamente non tra quelli gravi ) ha una natura più morale che economica. L’ordinamento dovrebbe poter rispondere in maniera coerente a tale esigenza.

In ultimo rimane il tema della rieducazione o riabilitazione: inesistente. Le risorse per i doveri sociali dello Stato sono da tempo esaurite anche per i cittadini meno abbienti, per gli emarginati; figuriamoci per i detenuti.

Ma il tema delle “responsabilità” non si cancella. Molto più spesso di quanto si possa immaginare, chi ha deciso di fare a meno della vita, si è determinato ad un tale gesto perché chi aveva il dovere di garantirgli un diritto non se ne è preoccupato. E’ rimasto indifferente, non se ne è “curato” od è stato irresponsabile. Il codice penale è chiaro: Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.12) 19 ottobre 2012 13:56

    L’articolo proposto e che ho letto con estremo interesse, "spalanca la finestra" ad una lunga serie di riflessioni destinate a coinvolgere sia la materia tecnica che quella morale (materia non è un termine esatto, lo uso solo per comodità). 

    L’Italia è un paese fondamentalmente cattolico. Ma non tutti i cattolici praticano i precetti di questa religione. Anche una sparuta minoranza di ministri di questa fede offrono esempi negativi di "perdita della memoria": non ricordano più il loro mandato pastorale.
    Tutti abbiamo letto di possibili (il condizionale è d’obbligo) abusi nella detenzione del maggiordomo del Papa.
    La cultura del perdono, ovviamente dopo aver pagato il giusto debito nei confronti della collettività, non è e non deve essere monopolio dei religiosi. 
    Già perdono. Chi finisce in carcere, paga il suo giusto debito, si ritrova poi a doversi portare dietro per tutta la vita questo marchio. Cerca in tutti i modi di nascondere la sua esperienza negativa. A nulla vale che si sia pentito e che abbia pagato il suo debito: un ex-carcerato resta un ex-carcerato. Libero cittadino ma ex-carcerato (con conseguenze negative sul piano del lavoro e dei rapporti sociali).
    Io non parlo di reati contro la vita, contro l’infanzia o contro le donne. In questi casi il mio pensiero non è coerente con la mia ragione. 
    Parlo di quei reati che coinvolgono aspetti patrimoniali, di tossicodipendenza , di clandestinità, insomma aspetti che non incidono sulla vita e sulla libertà altrui. Forse la tossicodipendenza, in casi specifici, dovrebbe essere esclusa da questo elenco,
    Quale debito pagare e come farlo pagare. Pur non ritenendo necessaria la privazione della libertà sempre e comunque, rimetto la discussione sulla materia ai tecnici.
    Ma, pagato il proprio debito, al cittadino tornato "in bonis" , una società civile e matura deve perdonare "nei fatti e con atti" il passato di chi non è più debitore verso la comunità.
    Cordiali saluti
    Alfonso Albano
  • Di (---.---.---.19) 20 ottobre 2012 02:42

    con l’indulto che si vuole fare questi escono mi sa... http://www.estense.com/?p=252267

    parla per te... cattolico.....

  • Di (---.---.---.115) 22 ottobre 2012 09:40

    e uno schifff tutto cio un reato va pagato .............
    ma no cosi sono persone no animali ...... poi i politici devono avere tutti i confort e loro nessuno li tocca e ci strano rubando pure le mutande facciamo uscire l’amnstia tanto la delinguenza ce sempre poi ora si parla perche ci sono i voti prima l’amnstia e poi i voti amnstia forza severino dagli una posibilita................ 

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