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La questione politica del Sig. B. e le omissioni del Pd

L’asfittico – e confuso – dibattito nel quale da giorni si affannano i politici – di governo e di opposizione – su ciascuno dei temi che riguardano la sentenza, parzialmente definitiva emessa nei confronti del Sig. B. è la dimostrazione (se mai di ulteriori prove ve ne fosse necessità) di una profonda ed irreversibile crisi del sistema sociale, culturale e politico del nostro paese.

Innanzitutto, è drammaticamente carente la conoscenza dei “fondamentali”. Le regole costituzionali – almeno fin tanto che avranno valore – riconoscono l’esistenza di tre distinti “poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Questi poteri sono distinti (ed autonomi) perché possano – tra altre numerose funzioni – assolvere a compiti di “controllo” reciproco. Ogni “potere” per definizione può invadere, illegittimamente,ed occupare terreni estranei. In Italia, ad esempio, l’esecutivo ormai decreta d’urgenza l’ordinario, attesa l’esistenza di un potere legislativo obiettivamente incapace di legiferare.

Non appartiene al sistema democratico affermare che non si possano commentare le azioni e gli atti di un "potere". Le leggi si rispettano, ma si possono però commentare, criticare e ritenerle ingiuste od inique. L'esecutivo può anche agire in maniera gravemente emendabile (l'espulsione della moglie del dissidente Kazako è stata oggetto di feroci e giustificate reazioni negative).

Pure il potere giudiziario non deve ritenersi esente da commenti e critiche. Le sentenze si rispettano ma possono ben essere oggetto di osservazioni e valutazioni: tecniche, politiche, sociali e culturali. La questione è, semmai, quella dei contenuti. La correttezza della critica, la sua strumentalità, la funzione o gli obiettivi.

È almeno ridicola la situazione che è dato osservare sulla vicenda B. Da un lato un feroce attacco al modo di gestione del potere giudiziario; dall'altro il richiamo ad un rispetto acritico. Salvo poi, per coerenza, dover evitare considerazioni sulla decisione che ha riguardato, ad esempio, il caso Aldrovandi.

Evidentemente il problema è quello dei contenuti (e delle prove) dell'abuso del quale un potere è responsabile. Ma in maniera altrettanto evidente manca la dialettica e l'analisi o, per essere più precisi, la capacità del confronto. Ancora peggio se si considera come forse il problema B. prima ancora che giudiziario è squisitamente politico. Sembra che l'unica ragione di indegnità alla politica sia l'aver commesso dei reati.

Tutto il resto è legittimo e mai emendabile. Poco importano i temi del conflitto di interesse, la capacità di gestire i problemi che la politica deve affrontare, il profilo pubblico e privato del politico.

La confusione è tale che ormai – ciascuno a briglia sciolta – confonde (forse consapevolmente) ruoli e poteri. Sull’argomento il frasario è almeno stucchevole:

Le sentenze si rispettano e non si commentano. I sostenitori del concetto affermano che commentare una sentenza, o addirittura riconoscerne valenza politica, sociale e culturale equivarrebbe a delegittimare la Magistratura. Montesquieu non potrebbe che rivoltarsi nella tomba. In una democrazia gli atti di uno dei poteri si devono, certamente, rispettare; ma non esistono “dogmi” che ne vietano la critica.

Le decisioni dei giudici – espressione del loro legittimo potere di amministrazione della Giustizia – si informano al principio del c.d. “libero convincimento”, a sua volta delimitato dalle regole che disciplinano la valutazione delle prove (ad esempio i criteri di credibilità o meno di un testimone). E’ francamente raccapricciante pensare di non potere (o non dovere) mai criticare l’eventuale uso distorto di un simile potere discrezionale, se non dagli "addetti ai lavori" e nei limiti della tecnica giuridica.

La storia della magistratura, ma soprattutto del potere giudiziario, si è caratterizzata culturalmente e politicamente per fasi e momenti tra loro molto diversi. L'attenzione posta da alcuni giudici ai temi ambientali ed a quelli della tutela de lavoro è vicenda relativamente recente. La procura della capitale al contrario si era "guadagnata" il nome di "porto delle nebbie". Coloro che hanno influenzato, in maniera importante, svolte epocali nella lotta alla mafia hanno dovuto gestire una violenta reazione interna allo stesso potere giudiziario.

Per chi ha memoria corta è bene ricordare i verbali del CSM sulla nomina, respinta, di Falcone a capo della procura di Palermo. Quindi è un errore - un enorme errore politico - pretendere che B. & company non possano e non debbano criticare, anche pesantemente, le sentenze emesse nei confronti del "capo". Si dovrebbe, invece, affermare l'infondatezza e l'inconsistenza dei contenuti di tali strumentali critiche. Ma questo richiederebbe una presa di posizione politica nei confronti di B. che è esattamente quello che il PD omette di fare e che nel passato non le è certo riuscito in maniera efficace. Si tratta di una omissione drammaticamente consapevole, attesa la parola d'ordine di oggi: stabilità ad ogni prezzo. Quindi nascondersi dietro la trincea del "le sentenze non si commentano" evita lo scontro politico con l'alleato B. ed evoca, però , consociativismi inaccettabili.

B. merita “agibilità politica” perché votato da dieci milioni di elettori. E’ il ricatto istituzionale del PDL che in maniera confusa baratta la sovranità popolare con la responsabilità giudiziaria e, soprattutto, politica. L’affermazione ricorda la vicenda di Barabba e l’analogia va ben oltre l’iniziale alfabetica. La sentenza, giusta o ritenuta ingiusta, deve essere rispettata ed eseguita e poco importa il furor di popolo. Almeno in una democrazia. Il punto è ancora una volta politico: quali sono i fatti e gli atti, penalmente irrilevanti, che rendono B. politicamente inaccettabile? Le omissioni del PD rimangono sempre le medesime.

In questo quadro si inseriscono le confusioni e le irrazionalità tecnico giuridiche. Prima fra tutte la pretesa incostituzionalità della legge “Severino” laddove prevede la decadenza da cariche elettorali attive in caso di sentenza passata in giudicato. In tempi normali una qualunque commissione esaminatrice di un concorso per avvocati o magistrati boccerebbe il candidato che sostenesse una simile tesi.

L’irretroattività della legge penale riguarda i reati e le fattispecie criminose, mai gli effetti processuali e tanto meno le condizioni di accesso a determinate funzioni in ipotesi di condanna definitiva. La strumentalità di un presunto dubbio di costituzionalità è di evidenza nel testo stesso della legge. La norma disciplina analiticamente tutte le ipotesi che nella realtà potrebbero presentarsi, ivi compresa quella del deputato o del senatore che durante il mandato venga condannato definitivamente. A distanza di pochi mesi gli stessi giuristi (in parlamento siedono avvocati e magistrati anche di fede berlusconiana) che hanno approvato e discusso quella legge ne eccepiscono l’incostituzionalità.

Occorre, allora, prendere atto dell’incapacità (o della non volontà) del PD di agire politicamente sulla questione del Sig. B., come del resto ha dimostrato dalla mancata approvazione di una degna legge sul conflitto di interessi ad oggi. 

 

Foto: Epp/Flickr

 

 

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