Brevetti software? No, grazie

Quando si parla di software, si parla di idee astratte, elaborazione logica, informazioni, conoscenze. L’hardware, di contro, è la materia fisica, l’oggetto, e, in quanto tale, ha dei costi. Ne consegue, da un punto di vista puramente logico, che applicare un brevetto alle idee astratte è una pratica insensata, anche perché i programmi software, in quanto opera dell’ingegno a carattere creativo, sono già protetti dalla legge sul diritto d’autore. I costi di ricerca per sviluppare idee e conoscenze sono praticamente inesistenti, pertanto non è giustificato concedere l’esclusiva su tali invenzioni che, tra l’altro, sono prodotte di continuo e in innumerevoli forme.
La vita utile di una nuova idea è relativamente breve e garantirne la protezione mediante un brevetto risulta illogico: l’idea che sta alla base del brevetto in generale è proteggere l’inventore di un bene materiale, di un oggetto, per un determinato periodo di tempo, in modo da garantirgli perlomeno di rientrare dei costi effettivamente sostenuti per la realizzazione della sua opera. Quindi, il brevetto per l’hardware rappresenta uno strumento di protezione, mentre per il software è semplicemente un grave intralcio alla competizione. Ci chiediamo, allora: cui prodest? La risposta è, come sempre accade quando entra in gioco il denaro, alle grandi aziende. Senza dimenticare gli uffici legali, che in cause intentate per violazione di brevetti software guadagnano negli Stati Uniti cifre a molti zeri. Brevettando le idee, è facilissimo invadere il campo del vicino e, quindi, finire in tribunale o pagare una multa. O entrambe le cose. La stessa Microsoft è stata di recente condannata a pagare una multa di 388 milioni di dollari per aver violato un brevetto su un dispositivo anti-pirateria di Uniloc.
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