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Verso una nuova Guerra Fredda? Vodka & Pampero

La Russia invia una flotta nell’Atlantico diretta ai Caraibi, con armamenti tattici e strategici, a dare manforte a Chavez. E sale la tensione fra Washington e Caracas. Come sta cambiando il quadro strategico ed economico in Sudamerica

Che gli Stati Uniti da più di un decennio abbiano allentato la presa, almeno ufficialmente, sull’America latina è un fatto. Che oggi cerchino di ripristinare la pressione, le relazioni e soprattutto l’egemonia economica e politica sull’intero continente è ormai evidente. Le ingerenze in Bolivia degli ultimi mesi sfociate nel massacro dell’11 settembre e la crisi diplomatica che ne è scaturita, giunta all’espulsione dell’ambasciatore nordamericano dal Paese andino, ne è la dimostrazione. A spingere Washington a questo rinnovato attivismo è un insieme di ragioni, sia economiche che strategiche. Sono le risorse, energetiche, di acqua e di “terra” che interessano alla Casa Bianca. Dopo sette anni di “guerra al terrorismo” il gigante nordamericano ha deciso di tornare a guardare in quello che storicamente considera il proprio orto. Ma gli equilibri, e i rapporti di forza, sono cambiati, i Paesi dell’intero continente stanno attraversando una profonda mutazione e la loro stabilità, anche i termini economici, non è più così precaria come negli anni Settanta e Ottanta. C’è poi da tenere in considerazione che chi oggi governa gran parte del continente proviene dai grandi movimenti di opposizione dei governi e regimi (spesso golpisti) appoggiati dagli Usa negli anni Sessanta e Settanta. Brasile, Bolivia, Paraguay, Uruguay, Cile, Ecuador, Venezuela: gran parte del continente è schierato a sinistra e ha memoria degli anni terribili delle giunte militari, dei battaglioni della morte addestrati da consulenti “gringo”. Una memoria che l’atteggiamento statunitense di oggi certo non contribuisce a sedare.

E poi c’è la crisi economica, dalle dimensioni ancora non interamente definite, che sta colpendo gli Stati Uniti in questo periodo, con un intero sistema di relazioni e meccanismi finanziari ultraliberisti che ora crollano grazie proprio alla loro debolezza di fondo: essere fondati solo sulla mera speculazione. Una crisi economica che solo in parte avrà dei riflessi sull’economia latinoamericana tuttora in crescita anche grazie al treno brasiliano che, dopo la cancellazione del debito internazionale, ora procede con ritmi esponenziali grazie non solo alle materie prime, ma anche alla produzione industriale ad alta tecnologia e alla creatività nei settori del design e delle offerte a basso impatto ambientale di settori di punta come quello aerospaziale.

E proprio il Brasile rappresenta uno dei perni di questo nuovo corso latinoamericano. Più proiettato verso l’Europa e il mercato asiatico che a quello nordamericano, Lula sta giocando le sue carte anche nella riorganizzazione strategica (e militare) dell’intero continente. Il Brasile è anche all’avanguardia per quanto riguarda la produzione di armamenti (è al terzo posto al mondo come produzione di armi leggere) e il suo esercito è considerato affidabile anche per quanto riguarda i dispiegamenti in missioni di peacekeeping come quella, condotta in maniera esemplare sotto la bandiera dell’Onu, ad Haiti. Ma per Washington, il Brasile non è per ora un pericolo: è troppo importante, per ora, l’afflusso di cereale e di biofuel da Brasilia per cercare di destabilizzare quello Stato.


L’altro perno strategico, più radicale e spregiudicato, è quello del Venezuela di Chavez. E si tratta di una vera e propria spina nel fianco per l’amministrazione statunitense. Insieme a Cuba, Chavez rappresenta il perno dell’asse del male in salsa caraibica. E Chavez contraccambia non perdendo occasione per attaccare Washington, e in particolare l’uscente presidente Bush, anche con insulti pesantissimi. Questa fortissima contrapposizione fra i due dirimpettai caraibici, fra il grande gigante assetato di petrolio e i giacimenti bolivaristi, nasconde anche la necessità si Chavez di consolidare la sua posizione all’interno dell’Unasur (L’Unione degli Stati sudamericani) e contrastare l’egemonia culturale ed economica del concorrente brasiliano. Ed è in questo contesto che lo spregiudicato presidente venezuelano ha deciso di cercare un partner economico, energetico e militare di tutto rispetto: la Russia.

L’arrivo dei due bombardieri russi la scorsa settimana a Caracas (due bombardieri strategici ad ampio raggio e non due caccia come erroneamente riportato dalla stampa in particolare italiana) ha rappresentato solo la premessa di un impegno militare della Russia a sostegno del Venezuela ben più ampio e inquietante di quella pensabile solo poche settimane fa. Chavez, cavalcando il conflitto (che qualcuno definisce “incomprensione” per acquietare le paure della comunità internazionale) fra Usa e Russia sulla crisi georgiana e approfittando del “caso” boliviano dell’11 settembre, è riuscito a mettere in piedi un’alleanza strategica di dimensioni quasi confrontabili al patto bilaterale fra la Cuba castrista e L’Urss nei primi anni Sessanta.

E non si tratta dei due pur inquietanti bombardieri, che dopo qualche giorno, comunque, sono rientrati in patria. Gli atti che stanno rendendo insonni gran parte degli analisti di Washington sono essenzialmente due. Il primo è economico e taglia di fatto le vie di comunicazione energetiche fra la sponda meridionale e quella settentrionale del Golfo. Le compagnie energetiche di Russia e Venezuela potrebbero dar vita nelle prossime settimane a un consorzio per operare insieme sul mercato latinoamericano. Le dichiarazioni in tal senso arrivano direttamente dal vice primo ministro russo Igor Setchine che riferisce le decisioni prese nel corso della riunione del governo russo. «Società russe potranno prendere parte alla creazione di un consorzio chiamato a posizionarsi sul mercato del Venezuela e di altri Paesi della regione», ha dichiarato Setchine. «La produzione di energia potrà costituire una locomotiva della cooperazione russo-venezuelana». E il colosso Gazprom si è precipitato immediatamente a Caracas, anticipando la visita del presidente venezuelano Hugo Chavez a Mosca. E da Mosca il colosso energetico annuncia di aver firmato un memorandum d’intesa per il progetto “La Blankille e Tortuga”: per l’esplorazione e produzione di gas naturale off shore, oltre alla vendita sul mercato interno e alla liquefazione del gas per l’export.

Contemporaneamente la Russia ha dichiarato di appoggiare la Bolivia (casus belli dell’attuale crisi fra Caracas e Washington) nella guerra diplomatica con gli Usa. Il ministro degli Esteri Sergey Viktorovich Lavrov, in un comunicato, ha definito «inaccettabili tutti i tentativi di interferenza esterna» nella crisi boliviana aggiungendo che l’integrità territoriale del Paese andino deve essere protetta. Un chiaro messaggio del legame esistente per la Russia fra questa crisi e quella dell’Ossezia.
Ma l’incubo per gli Usa è la notizia della partenza, il 22 settembre, di una flotta russa diretta verso il Venezuela. Arriverà nei Caraibi a novembre, guidata dall’incrociatore nucleare Pietro il Grande (con a bordo testate nucleari strategiche) per delle manovre congiunte con la marina di Caracas. E la memoria torna, inevitabilmente, alla crisi dei missili a Cuba del 1962. Ma Chavez non è Castro, Bush non è Kennedy (ed è a fine mandato) e soprattutto Medeved, o meglio Putin, non è Kruscev. E forse - lo temono in molti - non è un bene.

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