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Salvatore Coppola, l’ultimo editore. È andato via

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Ciao Licchia,

ho appena ricevuto la notizia che hai preso commiato dalla fatica. Lo avevi già fatto, da giorni, ma c’è sempre questa maledetta macchina biologica che proprio non riesce a capire il valore del scivolare via al momento giusto e trattiene quel che resta di noi anche quando abbiamo scritto la parola fine sulle bozze del nostro ultimo libro.

Ho avuto la possibilità, e la fortuna, di salutarti a settembre. Ho un ricordo nitido di te mentre confondevamo parole e vino guardando il mare. Lo terrò caro, quel saluto. Terrò cari i tuoi libri, le tue lettere, il ricordo di sgroppate in macchina e fiumi di idee che diventavano carta e inchiostro. Eravamo lì, a cercare un caffè decente e a pensare a libri futuri. Poi, due giorni dopo, a ridere delle nostre disgraziate vite precarie e miserabili con Sebastiano e Riccardo. Cialtroni e circensi, noi. Come nostro solito. Mica si può avere la tua eleganza, Salvatò. Non ci si nasce eleganti, ci si diventa. È roba che si studia vivendo, come hai fatto tu. Noi abbiamo studiato altro, perdendo di vista la leggerezza.

Rimangono in questo momento i tuoi libri (e quelli formidabili che hai scritto come “Il Mio Postino”), i cannoli di Dattilo, il cous cous di Clara, le strade deserte di una Sicilia da attraversare, il babbiare per il solo gusto di babbiare. Tutto questo rimane. Dentro chi ti ha conosciuto.

Non voglio scrivere l’ennesimo coccodrillo. Una volta ne parlammo della nobile arte del racconto dei morti. Ci ridemmo sopra. Non mi interessa. Ti scrivo e basta, e sono anche un po’ incazzato con te perché quei tre giorni di solitudine aspettando che si accorgesse che stavi male talmente tanto da morire te li potevi risparmiare. E quindi sono qui. Ho nella borsa il pizzino che ho scritto per te. E’ rimasto lì da quando me l’hai dato. Sono seduto dove ci siamo salutati. La stessa panchina, quasi lo stesso sole. Riccardo mi ha chiesto di scrivere il pezzo. Lo stavo già facendo. Ripeto. Non un coccodrillo, ma queste parole che ti ho detto mille volte. In silenzio.

Sei stato l’ultimo editore, pezzo di mondo freak e impegno civile. Figlio degli anni ’60, ma senza quella patina ideologica che ci ha rotto a tutti abbondantemente i coglioni. Hai amato i libri che hai pubblicato come figli, la carta su cui li hai stampati come pelle di un’amante, l’inchiostro come sangue che è possibile versare quando ne vale la pena.

Spero che lì, dovunque tu sia, suonino Yo Mama di zio Frank e ci sia dell’erba buona da fumare.

Ci si vede, Salvatò

 

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