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Tutto il mondo contro. La coalizione di Emmanuel Bove

 

Una coppia come tante cui ci ha abituato la letteratura: una madre anziana con un figlio in età da lavoro che – trovandosi in ristrettezze – abbandonano la vita di provincia per trasferirsi in città, anzi nella metropoli modello dei primi decenni del XX secolo, Parigi, alla ricerca di maggior fortuna, sperando di potersi affidare ai parenti e a qualche vecchio conoscente per risanare la propria situazione.
 
Ma che finisce per precipitare man mano in una indigenza sempre più mortificante e nella disperazione più nera, rivelando progressivamente la propria inanità, la grettezza, la meschinità accompagnata dalla presunzione attribuita spesso alla piccolissima borghesia in ristrettezze, ancor peggio se proveniente dalla provincia. Descritta con magistrale rigore da Emmanuel Bove in La coalizione (Lavieri, 2011, pp. 222, € 14,50).
 
Piccoli uomini e piccole donne, coperti da una corazza di perbenismo e banalità – e armati di furbizie oblique e ipocrite – che, scacciati dal loro ambiente, la Provincia francese conservatrice e arretrata, sbarcano nella luce abbagliante della metropoli sperando di conquistarsi una comoda nicchia in penombra ma finiscono per rimanerne bruciati.
 
Un destino comune a tanti, travolti – o almeno spinti – dalle precipitose trasformazioni del passaggio dalla manifattura al fordismo, alla catena di montaggio, ai tempi della modernità ormai esplosa – ed espulsi dalle campagne come già era successo in Inghilterra, all’alba della rivoluzione industriale – la prima volta con i contadini, la seconda, quella di cui scrivo, con i piccoli aristocratici e i piccolissimi proprietari terrieri: la macelleria sociale delle origini dell’industrialismo non fa distinzioni.
 
Per sopravvivere bisogna avere spalle solide, quelle delle professioni liberali, degli incarichi statali di alto livello – o almeno del denaro – non basta la propensione parassitaria e profittatrice dei Jacques Bonomme della tradizione.
 
Così Louise e Nicolas Aftalion, arrivati a Parigi, fanno appello a parenti e vecchi amici di famiglia usando la scusa – non del tutto consapevole – della ricerca di lavoro da parte di Nicolas per mettersi a vivere alle loro spalle, ed infilandosi in una spirale di progressivo degrado, economico quanto morale ed affettivo, che condurrà Nicolas al suicidio.
 
Seguiamo quindi – condotti dal tono piano, referenziale di Bove – il lento progredire di Nicolas nella profondità della consapevolezza del proprio degrado, dell’allontanamento dai tratti della vita normale, anche da quella più banale e monotona, ma almeno sostenuta dalla sicurezza economica, anche quella più elementare.
In contrappunto, i tentativi sempre più scoraggiati della madre, accompagnati da un lento ma ininterrotto declinare del fisico, prova concreta, evidente, della sua sofferenza e della sua progressiva rassegnazione.
Gli Aftalion sono ormai due reietti, screditati, abbandonati: non hanno saputo adeguarsi al cambiamento, alla fine del mondo delle “buone maniere” ipocrite della piccolissima aristocrazia e della borghesia di campagna, sostituite dai modi diretti, disincantati, moderni del cittadino borghese: il nuovo mondo gli è contro.
Dal romanzo emerge il profondo conflitto fra desideri contrastanti, sensi di inadeguatezza e colpa, percezione della propria decadenza, dell’incapacità di agire, dell’aspirazione ad una vita comune, normale, regolare, fatta di serenità economica e di sicurezze affettive e amorose.
 
La narrazione procede asciutta, lineare, attraverso una scrittura diretta, referenziale, documentaria, radicalmente descrittiva. Cronachistica, come ha ricordato Gianfranco Brevetto, il traduttore, alla presentazione della traduzione italiana del romanzo all’Institut Grenoble di Napoli, cui ha partecipato anche il biografo di Bove, Jean-Luc Bitton.
 
E se Brevetto e Bitton sottolineano la parentela con l’Albert Camus dello Straniero, con la sua scrittura referenziale, quasi anodina, a me viene in mente un altro confronto, forse più irriverente, sicuramente più imprevedibile: quello con Louis-Ferdinand Céline, almeno il Céline di Morte a credito.
 
Può sembrare un paragone azzardato, pensando al linguaggio iperbolico, urgente, eccessivo, violento del sulfureo autore del Viaggio al termine della notte. Ed infatti non si tratta tanto della scrittura, quanto dell’epoca e dei personaggi: il romanzo di Bove esce nel 1927, quello di Céline nel 1936, ma parlano della stessa Parigi – quella dei decenni subito successivi alle grandi Esposizioni Universali – e della stessa gente – quella partita dalle campagne per cercare fortuna in città (cfr.) con destini naturalmente diseguali, a seconda delle origini e delle opportunità. Così il piccolo Ferdinand, il protagonista di Morte a credito è un ragazzino che sembra quasi uscito da un romanzo di Charles Dickens per come viene maltrattato dal padre e da coloro per cui lavorerà…
 
Estremamente diversi i toni dei due romanzi – come sono di fatto incompatibili i due autori, ma simile la situazione di fondo: lo smarrimento esistenziale dell’individuo del Novecento di fronte ad una cambio radicale di prospettiva, di orizzonte, di percezione di sé, messo a confronto con una modernità che colonizza sempre più rapidamente la realtà sociale, travolgendo senza nessuna remora le resistenze e gli ancoraggi della tradizione.
 
Con esiti, però, opposti: in un caso la negazione, lo sparire a se stessi di chi si affida al suicidio, nell’altro l’affermazione di chi resiste alle vicende avverse fino a trovare una sua stabile identità.
 
Straordinario il finale del romanzo di Bove: Aftalion si è già lanciato nella Senna “Era completamente sommerso […] Si dibatté. Erano scomparse in lui tutte le ragioni che lo avevano condotto a gettarsi nel fiume […] Come se la vita l’avesse già abbandonato e il passato cessasse di essere una successione di fatti… vide davanri a sé la folla immensa di tutti quelli che aveva conosciuto. Li guardò ad uno ad uno. Poi, pur davanti alla morte… volle cercare in quella folla e assicurarsi che ci fosse un suo compagno di scuola che non aveva avuto nessun ruolo nella sua vita ma che, per una ragione inesplicabile, gli tornò alla mente. Non ne ebbe il tempo… L’acqua sopra di lui diventava più chiara. Aprì di nuovo la bocca per poter respirare. Il soffocamento, questa volta, fu tale che perse conoscenza.” È la fine. Nicolas smette di sentire, di soffrire, di essere.
 
Con le parole di Macedonio Fernandez, “…la supposta inesistenza susseguente alla morte [...] se un giorno cessassimo di esistere… non lo sapremmo mai, non è vero?” 
 
di Adolfo Fattori

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