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Setola il boss che imbracciava il kalashnikov e ordinava stragi in nome degli affari

Le imprese criminali di Setola:
  • Raid contro gli "sporchi negri" e gli imprenditori che denunciavano.
  • "Terrorizzare i familiari dei pentiti per scoraggiare le collaborazioni".

  • "Terrorizzare gli imprenditori e i familiari dei pentiti, controllare il territorio".

L’errore più grande, ora che la fuga di Giuseppe Setola si è conclusa, sarebbe quello di considerare l’artefice della primavera di terrore del clan dei Casalesi come uno stragista fanatico.

Niente di tutto questo, sottolinea il procuratore aggiunto Franco Roberti: «Setola non è un pazzo. Non uccide in nome di Allah, ma degli affari». Con la stagione di sangue che ha sconvolto l’Italia intera, il capoclan «ha voluto lanciare segnali ben precisi: agli imprenditori che dovevano continuare a pagare il racket, e ai familiari dei pentiti. Chi doveva capire, ha capito».


Le banconote per complessivi 50 mila euro trovate nell’abitazione a due piani di Mignano Montelungo confermano la grande disponibilità di danaro di Setola e la sua determinazione a uccidere per garantire il versamento ininterrotto di tangenti nelle tasche del gruppo. Ma certo la figura di questo 38enne conserva elementi di assoluta originalità nel panorama attuale della camorra che le rivelazioni dei collaboratori di giustizia fin qui conosciute riescono a delineare solo in parte. Quando i carabinieri di Caserta lo hanno arrestato, Setola era scalzo. Non indossava la benda sugli occhi con la quale si era fatto fotografare durante la latitanza per rafforzare la tesi secondo la quale lo Stato stava dando la caccia non a un sanguinario camorrista ma un povero ragazzo quasi cieco. All’uscita dalla caserma, ha invitato il suo avvocato a occuparsi della moglie, Stefania Martinelli, arrestata due giorni prima nel blitz di Trentola Ducenta che ha di fatto segnato l’inizio della fine del romanzo criminale di Setola. Epperò le indagini condotte in perfetta sinergia da tutte le forze dell’ordine e da un pool di sette magistrati (Antonio Ardituro, Francesco Curcio, Giovanni Conzo, Marco Del Gaudio, Raffaello Falcone, Catello Maresca, Alessandro Milita, Cesare Sirignano) raccontano un’altra storia: nell’aprile 2008, appena Setola esce dal carcere, grazie alla diagnosi sulla malattia agli occhi, e si rende latitante, l’organizzazione «fino a quel momento stagnante», come racconta in un verbale il pentito Oreste Spagnuolo, cambia marcia.

«Si fa come dico io», è l’avvertimento di Setola, che fissa tre linee-guida della sua leadeship: «Terrorizzare gli imprenditori, i familiari dei pentiti e scoraggiare futuri pentimenti»; poi «controllare il territorio», anche punendo «i cittadini albanesi ritenuti colpevoli di consumare i furti avvenuti nella zona di Castel Volturno e sulle zone da noi controllate»; infine imporre agli extracomunitari della zona «il versamento di una tangente sui traffici di droga, da costoro gestiti».

Quanto agli obiettivi, come si legge nei verbali di un altro collaboratore di giustizia, Emilio Di Caterino, vengono scelti anche e soprattutto per il messaggio che il delitto può lanciare sul territorio: come nel caso di Umberto Bidognetti, che doveva essere ucciso «perché era il padre di Domenico», pentito da alcuni mesi; dell’imprenditore Domenico Noviello, il quale «doveva essere ammazzato perché era una persona che aveva denunciato i suoi estorsori del clan Bidognetti e in questo modo bisognava dare un esempio agli imprenditori della zona di Castel Volturno. E di un altro imprenditore, Michele Orsi, condannato a morte «perché aveva iniziato a rendere dichiarazioni collaborative con la giustizia sui rifiuti».

Oppure come Stanislao Cantelli, zio di due collaboratori di giustizia. Come altri boss prima di lui, durante la latitanza il capoclan comunicava attraverso "pizzini" ed è su uno di questi manoscritti, sequestrato dagli inquirenti nel covo scoperto il 30 settembre e scritto, secondo il pentito Spagnuolo, «certamente da Giuseppe Setola», che viene data un’indicazione molto precisa agli affiliati: «farsi pagare dagli "sporchi neri" oppure farsi dare un chilo di droga, da intendersi cocaina, quale pagamento della tangente». E proprio gli immigrati costituiscono il bersaglio della più eclatante delle missioni di morte consumate dal gruppo Setola, quella del 18 settembre a Castel Volturno quando i killer spararono a casaccio colpendo sei extracomunitari di origine africana, verosimilmente estranei a qualsiasi traffico illecito. Ma già un mese prima, il 18 agosto, un’analoga azione contro sei immigrati nigeriani si era conclusa senza vittime, ma solo con feriti, perché le armi si erano inceppate. «Io non ho più niente da parte perché ho già un ergastolo, e poi non facciamo gli orefici», avrebbe detto il boss nell’annunciare la stagione di morte segnata complessivamente da 18 agguati.

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