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Riforme, quelli che il lavoro non lo hanno

C’è un gran parlare sui media del lavoro che non c’è o che non c’è più. Il governo, davanti ai numeri indecenti della disoccupazione giovanile, ha indicato questo come il suo principale impegno.

Resta, però, da capire quali iniziative intenda adottare. Sull’argomento si corre il rischio di fare confusione; magari a tutto vantaggio di qualche vecchio marpione della politica, di qualche uomo politico molto noto e molto votato, caratterizzato da una straordinaria capacità di far stare in piedi i sacchi vuoti (è questo è un efficace modo di dire delle campagne siciliane).

Per prima cosa dovremmo metterci d’accordo se il lavoro e la sua disponibilità vanno considerati come causa o come effetto. Nel primo caso il lavoro è assunto come mezzo per la creazione del benessere sociale; nel secondo caso il lavoro è visto come il risultato di processi sociali perfetti (o abbastanza vicini ad esserlo) che portano alla produzione della ricchezza e del benessere sociale. Uno di questi processi sociali perfetti è il libero mercato, che ha la capacità di massimizzare l’efficienza degli scambi commerciali (la famosa “mano invisibile” di Adam Smith).

Questi due punti di vista sul lavoro sono sostanzialmente antitetici. Il primo è tipico delle economie centralizzate e pianificate; il secondo è tipico delle economie del liberismo capitalistico.

Fra le cause dell’attuale sconvolgimento economico planetario vi è sicuramente il passaggio all’altro campo delle principali economie centralizzate e pianificate, quelle dei Paesi dell’est europeo e della Cina. La loro trasformazione in economie del secondo tipo ha finito per sconvolgere gli equilibri del commercio mondiale e per creare situazioni di grave disagio nell’economia dei Paesi dell’Occidente europeo come il nostro. Improvvisamente, dopo la caduta del muro di Berlino, le economie del liberismo capitalistico hanno finito per interessare un numero di persone moltiplicato per dieci, per cento e gli automatismi del commercio mondiale hanno finito per non funzionare più.

Forse la crisi finanziaria dei derivati, che ha interessato sostanzialmente i Paesi anglosassoni, ha funzionato solo da detonatore di una situazione esplosiva già esistente.

A questo punto, che risposta dare ai giovani ed alle categorie più deboli sul lavoro che non c’è?

Il mondo occidentale ha già affrontato con successo una crisi abbastanza assimilabile a quella attuale quando si è trovato petrolio-dipendente dopo la guerra del Kippur. Vediamo come ha reagito allora e se è possibile trarre qualche indicazione valida oggi per analogia.

Innanzitutto siamo davanti a problematiche che non è possibile affrontare e risolvere con gli strumenti attualmente in nostro possesso e nell’immediato. Questo valeva allora per la crisi petrolifera e vale oggi per la crisi dell’economia globalizzata. Dobbiamo farcene una ragione.

Ma, se la soluzione completa del problema è di la da venire, vi sono comunque delle efficaci iniziative da assumere nel breve periodo. Nel caso della crisi petrolifera si adottarono immediatamente significative misure di risparmio energetico. Sicuramente misure di questo tipo esistono e vanno ricercate anche per l’attuale problema della mancanza di lavoro.

In ogni caso va tenuta a freno la fantasia. Non si fece alcun progresso nel settore energetico fantasticando sulla produzione di energia dall’ossigeno e non se ne farà alcuna oggi fantasticando su politiche di aumento della spesa pubblica. Il nostro problema non è quello di consumare ricchezza per generare lavoro, ma quello opposto di produrre ricchezza mediante il lavoro. Chi sostiene il contrario sta solo cercando di fare stare in piedi i sacchi vuoti.

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