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Riflessioni “inattuali” sulla crisi culturale

Sui giornali dove ancora ci si consente di avere una o due pagine dedicate alla cultura, si incontrano spesso discorsi sulla morte della cultura, della letteratura, del pensiero. Da noi, in Italia, gli argomenti non mancano di certo nell’era di quella che Massimiliano Panarari ha chiamato “egemonia sotto culturale”. Che siamo una repubblica delle banane lo sapevamo da anni, dal punto di vista politico, ma che le banane dettassero che cosa esibire nei musei o che cosa leggere prima di andare a dormire è un altro discorso. Saremo pure una razza televisivamente sgradevole, ma non siamo ancora degli idioti terminali. Eppure, considerando i più che consistenti tagli alla cultura che ci aspettano - questo il triste leitmotiv che ci sentiamo ripetere da qualche mese - che cos’altro si può dire se non che l’arte, la cultura, la letteratura, magari, sono cose del passato?

Ci sono molte cose, invece, che si possono dire per mostrare che questa lamentatio funebri che gravita sulle nostre teste è destinata al macero molto prima di quanto non si pensi. La scure economica è concreta, non c’è dubbio, è drasticamente vera. Ma c’è anche chi pensa che si possa fare di questo male endemico una virtù: sfoltire la foresta, setacciare le possibilità - politiche o creative che siano, e non dimentichiamo che le due cose devono convivere - per rendere il meglio possibile e per andare più lontano nella povertà. Minimalismo, si potrebbe dire, contro “spreco” e vita facile, specialmente quella degli addetti ai lavori che, almeno in alcune grandi città italiane, hanno goduto di un benessere eccessivo, speculando sulla parola “cultura”. Una parola istituzionale come poche altre, non dimentichiamolo, avvolta nel potere come e più delle altre. Perciò occorre creatività, eccome, perché se devi fare un quadro con tre colori non è come se ne avessi da parte mille… Qui i discorsetti degli assessori servono a poco, ci vuole ingegno in primo luogo laddove un progetto nasce, prima che sia una faccenda organizzativa. Se devi organizzare una rassegna musicale e puoi permetterti soltanto un budget modesto, occorre scegliere e ogni scelta implica dei criteri, dei saperi, una strategia. La crisi va d’accordo con la cultura, in un certo senso, visto che quest’ultima consiste, in buona parte, nella riflessione e nella capacità di discernere tra possibilità che si stanno facendo sempre più esigue. In fondo, non è nato così anche il modernismo, denunciando lo spreco dell’ornamento, per dirla con il celebre architetto Adolf Loos? E’ una metafora esagerata, naturalmente, ma rende l’idea di un cambiamento drastico quanto la crisi che stiamo attraversando. E’ una strategia di sopravvivenza che, spero, molte associazioni culturali cercheranno - magari non in modo isolato, visto l’adagio divide et impera - di rendere possibile.

La prima regola, a mio avviso, è non ascoltare i becchini della morte dell’arte, i soliti neoconservatori che, cavalcando il momento della crisi, tirano i remi in barca e vi consigliano, senza tante sfumature, di fare altrettanto… Cominciano, di solito, con delle analisi storiche o economiche su come è sempre andata (adagio centenario che si può far risalire all’Anno Mille) e di come sempre andrà a finire. Male, ovviamente. Ma che bello, quale profluvio di idee… Le solite “vacche grasse” che poi diventano “magre”. Alcuni chiudono i battenti, certo, ma chissà che in fondo non se la siano cercata da tempo con le loro mani la chiusura e l’incomprensione di cui, a cose fatte, si lamentano e si lamenteranno ancora? Esame di coscienza, semmai, doveroso: se per fare una mostra o un festival dilapidi tutto il possibile, che cosa resta per domani? Situazione molto italiana, quella degli sprechi di ogni genere, ma che tocca nell’ambito culturale dei vertici quasi metafisici… Guardate quanti libri ci scodellano nelle librerie, per esempio, per poi scontarli sempre di più, visto che non vendono e non venderanno mai abbastanza?

Non è, beninteso, che gli editori siano ciechi ma il sistema economico gravita attorno ai grandi numeri, in modo indipendente dalla domanda effettiva. In pratica, è una specie di bulimia da iper-mercato, qualcosa che comincia a opprimere anche la mente. Il cachet di un cantante di opera lirica potrebbe essere un altro di questi casi, ma ce ne sono molti altri.

Voglio credere, tuttavia, nel sorriso disarmante di Barbara Rose, la nota e simpatica critica d’arte americana che sapeva guardare oltre e trovare le giuste soluzioni per i momenti di panico culturale. Il fatto e che ha cominciato a lavorare in un’epoca in cui era normale mangiare poco e rischiare molto, ovvero negli anni Sessanta, mentre oggi tutti si lamentano che le casse sono vuote, ma ben pochi fanno della cultura critica una virtù, insistendo spesso sull’abbondanza dell’offerta. E poi le chiamano “contaminazioni”… La fine delle avanguardie artistiche, direbbero i becchini, porta con sé dei compromessi, non ti pare? Bene, sarà il momento di trovare delle linee di pensiero per salvare capra e cavoli, allora… Pochi soldi, ma idee forti. Filosofia zen: taglia la corda quando è ormai troppo lunga. Certo, si tratta di un’eccezione alla regola, di un comportamento “minoritario” - quello della Rose e di altri lungimiranti personaggi della scena inattuale - ma, forse, proprio per questo meno miope di tanti analisti al ribasso, di tante lagne del solito genere. Il genere apocalittico che vende sempre bene.

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